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Il Corriere – The Mule, recensione: elogio dell’ordinario per Clint Eastwood

Testo con morale ma non moralista quello proposto in The Mule, film che vede peraltro il più che gradito ritorno di Clint Eastwood davanti alla macchina da presa

pubblicato 31 Gennaio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 21:27


(Clicca sull’immagine per vedere il trailer)

Ti hanno mai detto che sei uno stronzo?

Sempre. Anche in spagnolo.

The Mule lo si può girare solo adesso, e può farlo solo Clint Eastwood. Non si tratta di partigianeria, bensì di mera constatazione. Earl Stone, interpretato appunto da Eastwood, è un fioraio di successo nel 2005, mentre nel 2017 si trova costretto a chiudere baracca e burattini. Ha anteposto la carriera alla famiglia, che infatti non vuole più vederlo, anzi lo odia; lo odia perché lo ha amato, e il fatto di non esserci, di essere stati oscurati dalla professione di lui, è qualcosa che non si può perdonare. Earl però può ancora contare sulla nipote, che lo invita a una festa, facendo scoppiare il prevedibile dramma familiare. Qui incontra un giovane che, vedendolo in difficoltà, gli allunga un biglietto: «se ti piace così tanto guidare, conosco chi può offrirti un lavoro». Comincia tutto così, in maniera apparentemente casuale, anche se sappiamo che le cose stanno in maniera diversa.

Si tratta infatti dell’ennesima parabola di redenzione, a cui Eastwood, finalmente tornato davanti alla macchina da presa, sottrae il carico di patetiche implicazioni che non di rado certi contesti portano in dote. Quel viso scavato, raggrinzito, che ne ha viste di ogni: nelle sue «tre espressioni» (cit. Sergio Leone, che si riferiva al personaggio di Per un pugno di dollari, non all’attore) c’è una fetta di USA che forse è vero essere in procinto di scomparire. Il suo solo apparire rappresenta un colpo di coda: vi era parso che me ne fossi (ce ne fossimo) andato/i; invece no, siamo qui, invecchiati, segnati, ma ci siamo ancora. Mai Eastwood ha girato un film che tratteggia in questo modo, così diretto eppure così ambiguo, lo scarto generazionale di un Paese che non è semplicemente cambiato, ma che sembra capovolgersi.

E alcuni passaggi operano in maniera quasi didascalica nel sottolineare certe cose, come la pantomima riproposta in più versioni sull’uso degli smartphone, laddove il nostro storce il naso e fa il vago al solo sentir parlare di SMS. Repubblicano atipico, come sempre è stato, quando uno dei suoi interlocutori, ben più giovane di lui, gli si rivolge al plurale, identificandolo con la categoria della quale fanno parte gli «anziani» tutti, motteggiandolo perché a una certa età ci si può permettere di non avere più freni, più peli sulla lingua, Eastwood fa dire al suo Earl: «e chi ne ha mai avuti?». È un entrare e uscire dalla finzione, l’alternarsi di due dimensioni che si mescolano, a volte sfumando l’una sull’altra. Il regista de Gli spietati vuole dire la sua sul presente, su questi Stati Uniti dominati da avvelenatori di pozzi che spadroneggiano, quantunque in maniera non di rado maldestra, sul discorso, imponendo confini (linguistici e non), servendosi di quei social che hanno creato una realtà aggiunta, la quale però sta facendosi sempre più soverchiante.

Più che politico, nel becero senso di partitico, The Mule affonda nell’attualità, in quella società che non intende descrivere con fare da entomologo, partendo invece dal ben più accessibile caso singolo, un anziano tutt’altro che speciale, anzi, decisamente ordinario, che resta invischiato in una situazione estrema, mentre al contempo i suoi altrettanto “ordinari” problemi procedono di pari passo. E tocca i tasti giusti, non giunge a facili conclusioni, non si fa piacere: Earl non è costretto a spostare chili di droga per il Cartello messicano, né è tantomeno ignaro di ciò sta facendo; ad Earl quei soldi facili piacciono. Piacciono perché così può “comprarsi” la simpatia di chi gli sta intorno; piacciono perché gli consentono di spararsi le sue ultime cartucce, concedendosi piaceri che vanno dall’auto nuova a qualche escort di alto bordo. Quando incontra il suo datore di lavoro non batte ciglio: la diffidenza iniziale, quello spaesamento, quasi imbarazzo, di chi scopre che ciò che sta per fare ha delle implicazioni morali notevoli, è già acqua passata. Oramai a quel punto Earl è un trafficante di droga a tutti gli effetti.

Eppure il suo discorso, che prevede una morale, alla quale immancabilmente approda, si pone sulla sponda opposta del moralismo. Il suo non è un personaggio positivo, sebbene sia difficile piazzarlo tra i negativi tout court. Clint Eastwood non dice cosa sia giusto dire o fare, tentazione alla quale tanti altri film dalla struttura così classica e su questa falsa riga tematica sono soliti cedere e ben volentieri. Nient’affatto. Ciò che dice è che, qualsiasi cosa si dica o si faccia, ebbene, si deve essere pronti ad affrontarne le conseguenze. Ecco allora che la sua ambiguità, che sta al personaggio, diventa quasi amoralità quanto al giudizio su certi atti, certe scelte, certe decisioni: che tu dica, faccia o pensi qualcosa, o che tu decida di non dirla, farla o addirittura pensarla, ti tocca darne conto. A volte a te stesso, ma siccome non si è mai davvero soli, capita di doverne dare conto a qualcun altro. Alla famiglia, per esempio, trait d’union tematico di tutto il film, che sul finire emerge in modo netto.

Non c’è nulla di più americano nell’evocazione di simili dinamiche, nella chiamata alla responsabilità che può certo portare a degli scompensi, ma di cui oggi davvero nessuno parla più. Per dirne una, Eastwood sa che nel pronunciare certi termini come «negro», «mangiafagioli», «lesbica» (in originale dyke, che non ha un corrispettivo italiano analogo all’inglese, inizialmente sorto in accezione dispregiativa) e via discorrendo finirà certamente con l’innescare determinate reazioni. Ma non si tratta di far il politicamente scorretto per forza; non c’è alcuna gratuità in certe uscite sopra le righe, proprio perché la loro presenza è funzionale a un discorso in cui si cerca di ragionare non tanto sul loro significato quanto sulle concrete ripercussioni che hanno nella quotidianità, in quel banale susseguirsi di eventi che è la vita di tutti i giorni. E sì, come già detto, sono forse i passaggi più didascalici, tipo la scena in cui Earl si ferma per aiutare una famiglia di persone nere rimaste ferme a causa di un copertone bucato; oppure quando, prima ancora, dà dei consigli a delle motocicliste. Insomma, le posizioni di Eastwood si conoscono, e non sono certo tali da poterle affiliare ad alcuna forma di razzismo, omofobia etc. Nondimeno, il nostro rivendica il suo diritto di dire come ha sempre detto, fare come ha sempre fatto, senza per questo passare ora per ciò che non è o per simpatie che non ha (non ultimo Trump). Non tanto per usare tutto ciò a mo’ di martello sulla testa di qualcun altro, ma perché essere americani significa anche questo, avere delle idee e poterle esprimere, senza che l’asticella del rispetto altrui registri sistematicamente delle modifiche alle quali in alcuni casi è difficile, in altri oltremodo limitante stare al passo.

Questo, come in parte accennato, non significa che The Mule la faccia semplice. Non c’è denuncia né lamento, anzi, se ne guarda bene ed invita a fare altrettanto, ossia, appunto, assumersi le proprie responsabilità, verso sé stessi prima, poi verso gli altri. Di nuovo attardandosi su una formula consolidata, quella che Eastwood conosce meglio, cioè quel classicismo che sa affabulare, di gran lunga meno posticcio e quindi più credibile da un lato rispetto a film ben più laccati e artificiosi come J. Edgar, Hereafter e Jersey Boys, dall’altro dal più formalmente schizofrenico 15:17 – Attacco al treno. Con The Mule Clint Eastwood si riappropria di quel tenore à la Gran Torino, restandogli tuttavia inferiore poiché meno affascinante, non senza ragione. La ragione è quella di un film che non vuole stravolgere nulla, che ha qualcosa da dire, facendo leva su quella ordinarietà che rappresenta il canale privilegiato, se non l’unico, attraverso cui in quest’epoca praticare forme più o meno significative di eroismo. L’eroismo di chi, semplicemente, fa la cosa giusta, specie quando è preceduta da una sbagliata. Riuscendo a non essere mai sguaiato, bastian contrario a tutti i costi, concedendosi piuttosto qualche nota più leggera, qualche uscita di spirito qua e là che non guasta affatto. Non ho idea di quanti siano disposti a sentirsi dire certe cose, in questo modo peraltro, ma la fiamma c’è e a un certo punto s’avverte eccome. Chi altro può girarlo un film così, persino piccolo come questo? Oggi?

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8″ layout=”left”]

Il Corriere – The Mule (USA, 2018) di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Bradley Cooper, Taissa Farmiga, Alison Eastwood, Michael Peña, Andy Garcia, Laurence Fishburne, Dianne Wiest, Ignacio Serricchio, Clifton Collins Jr., Robert LaSardo, Jill Flint, Manny Montana, Noel Gugliemi, Katie Gill, Loren Dean ed Eugene Cordero. Nelle nostre sale da giovedì 7 febbraio 2019.