Home Recensioni High Flying Bird, recensione: solito Soderbergh per istanze diverse nel suo film ambientanto nel mondo dell’NBA

High Flying Bird, recensione: solito Soderbergh per istanze diverse nel suo film ambientanto nel mondo dell’NBA

Dietro il solito congegno apparentemente elaborato che tanto piace a Steven Soderbergh, quest’ultimo tratteggia una delle svariate dinamiche a tema razziale negli USA di oggi

pubblicato 11 Febbraio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 21:14


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A Ray Burke (André Holland) non prendono la carta di credito. È lì, insieme ad Erick (Melvin Gregg), un giovane cestista che è pure uno dei suoi più importanti assistiti, in questo locale altolocato dove sembra s’incontrino solo persone di un certo tipo per affari che spostano Dio solo sa quali cifre. Ray quindi paga in contanti, dopodiché consegna ad Erick un pacco: «leggilo, questa è la tua bibbia», e alla domanda «quando dovrò aprirlo?», il primo risponde «lo capirai». Steven Soderbergh, con High Flying Bird, entra a forbice su uno dei temi politici più caldi; facendo il giro largo, entrando però nel merito di un discorso specifico che punta decisamente ad un argomento ben più ampio.

Siamo in piena fase di lockout nell’NBA, ossia quel periodo in cui due o più parti non hanno trovato un accordo, di natura chiaramente economica, ça va sans dire, e perciò il livello di guardia è un pelo più alto. Un pelo però, non di più: tutti sembrano infatti relativamente a loro agio con questo stallo, come se un momento del genere fosse fisiologico, parte di un sistema oramai ben rodato, che alla fine vedrà i soliti vincere anche quando potrebbe sembrare che hanno “perso”. Ray lavora con una grossa compagnia che si occupa appunto di rappresentare i giocatori nelle varie leghe sportive professionistiche, l’equivalente del procuratore nel calcio, pur con i dovuti distinguo. Ed è chiaro che avere almeno un’infarinatura di cosa sia questo mondo aiuta, ma non è così indispensabile se si pensa e si ascolta.

Ray è un personaggio alquanto curioso, interessante, che magari esiste così per come ce lo mostrano, ma che così ci viene mostrato solo nei film: sicuro, calcolatore, che non sbaglia un colpo; il tipico profilo che a Soderbergh piace portare in certi suoi film, meno la cialtroneria di un Ocean, per dire. Subodorata l’occasione, messo spalle al muro, a Ray non resta che giocare la sua di partita, in quello «sport nello sport» che è la sovra e sottostruttura che regola ogni cosa nel basket americano. Si fa tanto parlare di amore per il gioco, passione, quasi con ingenuità, con quella punta d’idealismo che a certi livelli è davvero inconcepibile; eppure cos’altro dovrebbe o potrebbe rendere tollerabili certi meccanismi se non l’affezione e la dedizione totale a un’idea?

Nel caso di Ray c’è senz’altro quest’impeto mosso dalla “purezza” del gioco, il basket così per com’è, senza tutto ciò che lo rende anzitutto prodotto. E forse High Flying Bird lavora meglio su questi argomenti un po’ più astratti, questo soffermarsi su una dimensione un po’ più alta, oltre che di ampio respiro, piuttosto che nelle vicende personali di un agente che rischia di uscire dal giro (e quando ne esci, ne esci e basta), o di un ragazzo che potrebbe vedere il proprio sogno infrangersi. No, questo film è decisamente più disilluso di così, per questo appare più freddo, distaccato, come Sam (Zazie Beetz), che gradualmente viene fuori come il più accattivante di tutti, proprio perché il più ambiguo, meno classificabile in base alle cose che fa.

E c’è poi l’immancabile questione tecnica, risolta pure stavolta in una seconda sortita del regista presso un territorio particolare, quello del fare film con uno smartphone. Come Unsane, anche questo suo ultimo lavoro è girato con uno o più iPhone, ma è qualcosa che francamente allo spettatore riguarda sempre meno. High Flying Bird è infatti costato due milioni di dollari, un’inezia se confrontato con altre produzioni, certo; nondimeno i soldi si vedono, perché quando sai come utilizzare lo strumento, venendo a patti con certi suoi innegabili limiti (il cielo è inquadrato sempre meno, laddove in Unsane certe riprese in esterni mettono a nudo l’impossibilità di tenere a bada l’esplosione del bianco di giorno), si tratta allora di evitare certe cose e concentrarsi su altro. Per esempio, girare per lo più in interni, macchina poggiata su un cavalletto o qualcosa di simile, muovendosi il meno possibile e per lo più sulla medesima asse (all’inizio c’è una sequenza di macchina a mano, e qualche problema di stabilizzazione si nota). Il resto è production design, scout location e recitazione.

Tutto il teatrino che Ray e Spencer (Bill Duke) improvvisano quando evocano la schiavitù razziale, quel modo più leggero per accostarsi ad una questione così delicata, ad oggi quasi impossibile da trattare senza pestare una merda, dà poi adito a Soderbergh di buttare lì qualche battuta sulla soverchiante pervasività dei social, che tutto regolano e stabiliscono, dinanzi ai quali finanche le alte sfere dell’NBA devono per il momento chinarsi (finché non troveranno il modo di arginarli, e lo troveranno). Qui c’è il centro di High Flying Bird, il suo mostrare le carte dietro il solito giochino a là Soderbergh, che ama portare in scena questi congegni apparentemente intricati mentre invece sono alla portata di chiunque; da intrattenimento a denuncia, quella di un mondo certamente dipinto in maniera sin troppo manichea, in puro stile hollywoodiano, ma che, tra il serio e il faceto, oltre che senza particolari approfondimenti, punta il dito su un circo e sul cinismo, non sempre gratuito, di chi ritiene che di certe realtà, in quanto tali, si debba solo prendere atto. Tutto questo, da parte di un film che cinico lo è a sua volta, aspettate la chiusa prima di credere il contrario.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

High Flying Bird (USA, 2019) di Steven Soderbergh. Con Zazie Beetz, Zachary Quinto, Kyle MacLachlan, Bill Duke, André Holland, Sonja Sohn, Caleb McLaughlin, Melvin Gregg, Michelle Ang e Jeryl Prescott. Su Netflix da venerdì 8 febbraio 2019.