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Rotterdam 2013: My Dog Killer – Recensione del film di Mira Fornay

Mira Fornay gela il pubblico di Rotterdam con una storia cruda e intensa. Cineblog recensisce My Dog Killer

pubblicato 2 Febbraio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 17:59

In un minuscolo villaggio della Slovacchia Marek ed il proprio cane (Killer) conducono una vita anche troppo tranquilla. Forse per noia, forse per altro, da tempo si è anche circondato di alcune amicizie un po’ particolari: tutti skinhead. È questa l’unica distrazione che riesce a concedersi nell’ambito di giornate che sembrano tutte le stesse, grigie, tristi. Per sommi capi, da questo scenario muove My Dog Killer.

Mira Fornay porta a Rotterdam un film piuttosto rigoroso, quasi fosse un crudo documentario in presa diretta. Né musica né soluzioni tecniche di spessore: si vede che la regista slovacca è stata a scuola da Abbas Kiarostami, uno che fino a qualche tempo fa sosteneva che per girare un film bastasse una macchina da presa e tre obiettivi. Lezione appresa e prontamente applicata.

Un macigno, dunque, dato che il rigore stilistico adottato si fonde con un soggetto pesante, per alcuni addirittura intollerabile considerate le premesse. Storie che in regime di confusione molesta quale quella che andiamo sperimentando da tempo, gridano vendetta al cospetto di verità taciute e relativi equivoci.

Sotto accusa non c’è tanto un’ideologia, quanto una chiusura platealmente più manifesta in ambienti chiusi come quello del villaggio in cui è ambientato il film. In questo caso va preso in esame un contesto non facilmente decifrabile da chi come noi è immerso in un mondo costantemente connesso, in cui le idee viaggiano al ritmo di una conversazione dal vivo.

Marek diviene quasi “incolpevolmente” vittima di una cultura che non lo agevola, né lo sprona a mettersi in discussione. Un tipo estremamente taciturno, quasi che la Fornay volesse suggerirci una profondità inespressa, soffocata da un mondo che lo incalza, senza che possa in alcun modo venirne fuori. Abbandonato dalla madre in tenera età, nel corso degli eventi descritti nel film vive col padre, portando avanti un vigneto.

L’unica creatura con cui riesce a rapportarsi è il proprio cane, relazione che si sostanzia esclusivamente in un ciclico e bestiale addestramento. Tutto ciò è piuttosto sintomatico di una regressione che pone il diciottenne protagonista ai limiti della sconsideratezza più totale, che finirà col costargli un prezzo davvero salato.

My Dog Killer descrive un processo di spersonalizzazione già attuato, fatto, mostrandoci invece a cosa conduce un percorso teso a spogliare l’uomo, volente o nolente, persino del più piccolo briciolo di umanità. Trattasi di una freddezza sepolcrale quella che ci viene sbattuta in faccia, oltre che pessimistica all’inverosimile. Non esiste redenzione per chi non considera quest’ultima nemmeno come possibilità.

Voto di Antonio: 6,5