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Educazione siberiana: la vecchia Urss sempre più lontana

Da un romanzo di successo, un film di Gabriele Salvatore che si perde nella neve e nel ghiaccio…

pubblicato 23 Marzo 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 16:29

Gabriele Salvatores è un bravo regista, non c’è bisogno di scoprirlo. Non solo. A differenza di tanti suoi colleghi del nostro cinema, non esita a tentare strade nuove e a sporgersi verso i temi della contemporaneità, lasciando al loro destino le ideologie non solo patrie, cercando invece di entrare nelle macchine tecnologiche ed elettroniche. Cerca di capire il mondo che stiamo vivendo, così perentorio e travolgente.

In Educazione siberiana, tratto dal libro di successo scritto da Nicolai Lilin, sta in mezzo. In mezzo a un mondo che se n’è andato (il comunismo dopo la caduta del Muro di Berlino, 1989) e un mondo dissolto che svela poco a poco una faticosa ricerca di identità.

La fine dell’Urss ha avuto effetti che non sono tutti chiariti, non si può dimenticare che la grande realtà del comunismo dell’Est europeo- e oltre- sta incidendo profondamente nella politica e nella economia globalizzata.

Sono andato a vedere il film, sperando in un’occasione significativa: non una spiegazione dei fatti in vista o quelli ancora coperti, non visibili; e soprattutto, augurandomi di “godermi” un Salvatores. Sono rimasto deluso. Un film buio, serpeggiante con andirivieni nel tempo, incerto. Lontano dalle speranze suscitate dalla lettura del libro di Lillin , speranze che sono alla base delle scelta degli spettatori di andare in sala. Un film poco “sentito” dal regista, alle prese con una sceneggiatura poco limpida, tortuosa, quasi una trappola.

Sulle intenzioni dei produttori e di Salvatores è caduta la neve, tanta neve da attutire la violenza dei certe scene e lo scarso fascino dell’igloo in cui John Malkowic, protagonista, una sorta di santone libertario, contro divise e soldati sovietici, e nello stesso tempo pervaso da una fanatica religiosità contro il denaro, vero strumento del potere e delle sue politiche.

Mi dispiace. C’è qualcosa, nel nostro Paese, nel solo nel cinema, che non riesce a fare i conti con il passato e in particolare con i settanta anni di comunismo. In questo film il gusto prevalente è quello di virare il tutto nel cuore di una educazione siberiana sui giovani orientata dalla scuola della violenza e di una “mafiosità” diffusa, irresistibile (i ragazzi del film sembrano quelli di “Gomorra” di Matteo Garrone).

Pieghe insoddisfacenti di un film che Salvatores non domina nei contenuti e affronta volando nelle notti, sotto i fanali che allungano ombre sulla neve. Un capitolo, ripeto, dell’incapacità del nostro cinema di affrontare, capire, prendere posizione nel globo delle diversità, dei passati che non passano o passano poco. Bisognerà attendere ancora.

Sta vendendo migliaia di copie “Lemonov” di Emanuel Carrère, romanzo bio sulla figura di un nazicomunista nell’Urss dello sfinimento e del crac. Affascinante. Ambiguo. L’autore cavalca Lemonov come fosse un cavallo pazzo nella steppa tinta dal rosso delle bandiere rosso e dal rosso del sangue sparso nei gulag dei prigionieri dissenzienti dal regime.

Faranno un film, ne sono sicuro. Ma si troverà un regista giusto? Spero che non sia un italiano, considerata la nostra incapacità di analizzare la storia fatta di tante storie in cui la paura di dire le cose chiare è un handicap di vecchia data. Ne vogliamo parlare, finalmente?