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Hang (game) over?

“Una notte da leoni” è la commedia per tutti. Ma non tutti oggi hanno più la “loro” commedia.

pubblicato 2 Giugno 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 13:53


Il leoni tornano per la terza volta, ma è detto che sappiano ancora ruggire? La domanda, spontanea, sorge ancor prima di aver visto questo terzo capitolo che, a pelle, parrebbe essere una copia fotostatica del secondo (che a sua volta lo era del The Hangover originale).

Il primo “dopo sbornia” nel 2009 ci aveva colto tutti piacevolmente impreparati e ci aveva lasciati un po’ brilli ma esilarati. Il secondo capitolo è stato un po’ come quei tentativi di replicare una vecchia serata inaspettatamente divertente fra amici ricreandone le stesse condizioni: piacevole nel complesso ma alla fine non potremo che paragonarla (un po’ pateticamente) a quella memorabile “prima volta”. Una notte da leoni 3, a giudicare dal trailer, non sembra voler uscire dalla formula già collaudata dal primo e ancora oggi più sorprendente episodio: nuove avventure ad alto tasso di follia, sballo alcolico con successiva amnesia e quindi l’indagine per scoprire, indizio dopo indizio, “ chi ha fatto cosa a chi e perché?”. Il tutto tra eccessi di ogni genere, sevizie ad animali rigorosamente non domestici e un consolatorio happy end che precede il “coming out” fotografico dei titoli di coda

C’è tutto quello che basta al pubblico per digerire questa terza avventura ingegnosamente confezionata per provocare le invasioni dei multiplex nei primi due week-end, film che pigia ancora di più il pedale sull’esagerazione caratteriale e l’accumulo di situazioni ai confini dell’assurdo. In fondo, per divertirsi, basta poco al giorno d’oggi proprio come, in tempi più “genuini”, ci si accontentava di Pipino e & Co. per divertirsi sguaiatamente al ritmo dei vari “Porky’s”, pellicole con cui “Hanghover” condivide quantomeno lo status di prodotti R-Rated.

Il problema semmai è che negli anni ’80 e ’90 c’era un pubblico per “Porky’s” e un altro per “Un biglietto in due”, uno per “Tootsie” e “Arizona Junior” e un altro ancora per “La signora in rosso”. Si rideva in tanti modi insomma e fra le mille sfaccettature di una società di cui registi e commedianti sapevano intercettare con intelligenza e precisione umori e tendenze. Oggi la commedia americana di successo – perché per quella italiana varrebbe un discorso diverso dovendo questa misurarsi con ben altri modelli – ammicca ai giovani o alle istanze “giovanilistiche” degli adulti, punta dritta alla pancia (e magari un po’ più giù) senza passare mai dal cuore e si coltiva il suo pubblico ignorando qualsiasi possibile lettura “sociale” delle sue archetipiche macchiette.

Così, giusto per citare un paio esempi della commedia del momento, il paffuto Alan di “Una notte da leoni” resta il tenero pseudo-ritardato che è sempre stato mentre il folle e snodato Mr. Chow resta uno snodato folle e basta; divertono, se si è disposti a divertirsi, ma non si va oltre. Permane insomma la sensazione che questi esagerati protagonisti siano stati costruiti per venire incontro alle sole esigenze di un pubblico giovane e dinamico, più incline ad assimilare atteggiamenti che a far propri caratteri veri e propri. E il discorso potrebbe estendersi a tanti altri personaggi della più fortunata commedia americana recente che, anche nelle migliori incarnazioni possibili (“Zohan” o “Zoolander” le più riuscite), dimostrano comunque di essere stati costruiti intorno a quell’unico modello di commedia ancora possibile, il demenziale (ma non quello alla “Scary Movie ”, non menzionabile per rispetto nei confronti dei padri Zucker-Abrahms-Zucker).

Se però è in questo modo che si ride oggi, laddove “così ridevano” una volta, tanto vale accontentarsi e non far troppo gli schizzinosi. Ben uniti alla massa odorante di pop-corn al burro potremmo divertirci anche noi se la sala è piena e il mood da commedia quello giusto, e perfino dimenticarci di aver già riso alle stesse battute neanche due anni fa. Tornato a casa però preferisco riguardarmi (con orgoglio e per la sessantesima volta) il ben più fine ed analitico John Hughes di “Un biglietto in due” o il Landis impagabile de “Il principe cerca moglie” piuttosto che tornare sul capitolo due di “Hangover”. Snobismo o nostalgia poco importa. Lì almeno si rideva col cuore.