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Cannes: intervista a Paz Encina (Hamaca Paraguaya)

E’ il primo film paraguayano approdato a Cannes. Nulla di strano, per un paese che non permette di fare del cinema alle persone. Il Paraguay: un paese che spera, attende, cerca un miracolo. Questo ed altro ancora nell’intervista fatta a Paz Encina, regista di Hamaca Paraguaya, in gara nella sezione Un Certain Regard, aperta ufficialmente

18 Maggio 2006 20:37

Hamaca E’ il primo film paraguayano approdato a Cannes. Nulla di strano, per un paese che non permette di fare del cinema alle persone. Il Paraguay: un paese che spera, attende, cerca un miracolo.
Questo ed altro ancora nell’intervista fatta a Paz Encina, regista di Hamaca Paraguaya, in gara nella sezione Un Certain Regard, aperta ufficialmente oggi con Paris, je t’aime: un film che promette lunghi silenzi e una riflessione. Appunto, sull’attesa…

Signora Encina, questo è il primo film paraguayano presentato a Cannes: come si sente? Il suo è un paese che ha passato una delle dittature più lunghe, se non la più lunga…
E’ da tanto tempo che la dittatura è con me; mio padre è stato esiliato ed imprigionato, la polizia è venuta persino a casa mia per un’ispezione. So che la gente del Paraguay vuole di meglio. Per me mio padre è un esempio molto forte, da lui ho appreso che bisogna fare sempre tutto ciò che si può. Lo stato non mi permette di fare cinema, ma questo per me non è affatto un limite…

Come nasce allora la possibilità di fare cinema in Paraguay?
Non saprei… Non ricordo quando decisi di mettermi a studiare cinema. Ho studiato cose riguardanti l’arte sin da piccola, chitarra fino a 24 anni, ma poi ho deciso di fare cinema. E il perchè non lo so precisamente…

Raccontiamo brevemente la trama del film: ci sono due persone in un piccolo paesino che attendono con ansia il ritorno del figlio; uno è speranzoso, l’altro non molto: qual è il tema principale? L’attesa?
M’interessa soprattutto mostrare l’attesa che c’è in Paraguay: l’attesa viaggia con noi tra speranza e disperazione. Soprattutto disperazione… In Paraguay tutto procede in modo lento, tranquillo, e questa cosa ci dà tempo per attendere: tutti attendono qualcosa, attendono che arrivi un miracolo.

Il film è molto semplice cinematograficamente: piani fissi, l’attrice è spesso filmata da dietro: forse per pudore?
Non m’interessa l’aspetto antropologico del film, non mi piace avvicinare la cinepresa perchè vorrei che qualcosa sia lasciato a chi guarda; c’era bisogno come di un velo per non vedere e ho quindi lasciato questa “distanza”. Il fatto delle riprese da dietro è che non m’importa far vedere bene chi è ripreso: non fa differenza se è la madre o il padre.

Lei filma chi soffre…
Non lo volevo specificatamente. Il dolore mi attira, sì, ma ho una certa sensibilità che me lo fa contemplare… lo conosco.

Il momento più difficile del film è l’attesa verso una fatalità che non arriva mai…
Viene spesso ripetuta una frase nel film: “Il malessere si è innamorato del Paraguay”, come se la speranza la si inserisse tutta nell’attesa: proprio come è successo nella storia del nostro paese…

Che tipo di cinema le interessa?
Una cosa che si possa vedere. Noi viviamo in una paese che non ha accesso al mare, è accerchiato, non ha porte d’uscita: il cinema può benissimo permettersi di far vedere tutto ciò.

Allora la sua è una missione?
Sì. Lo devo fare. Nella Bibbia c’è una frase: “Sono un umile servitore e faccio ciò che devo fare”…

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