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Venezia 2010: nello specchio debutto italiano

Un paio di settimane fa, annunciando che sarei stato a Venezia anche quest’anno, cominciavo da una domanda (retorica): il cinema saprà, ad una età avanzata- la Mostra, nata nel 1932, compie 78 anni- guardarsi allo specchio e cercare di capirsi? Voglio sperare di sì. L’incrollabile fede (?) nello stellone del cinema ci guida, ma lo

pubblicato 26 Agosto 2010 aggiornato 1 Agosto 2020 21:09

Un paio di settimane fa, annunciando che sarei stato a Venezia anche quest’anno, cominciavo da una domanda (retorica): il cinema saprà, ad una età avanzata- la Mostra, nata nel 1932, compie 78 anni- guardarsi allo specchio e cercare di capirsi? Voglio sperare di sì.

L’incrollabile fede (?) nello stellone del cinema ci guida, ma lo scetticismo è d’obbligo. Il cinema che più deve guardarsi allo specchio, per non illudersi e vedere le rughe vere, è quello italiano. Gli vogliamo così tanto bene che ci piacerebbe avviare su di esso una riflessione non banale. O meno banale di quella che, in questa estate calda, si è scatenata sui giornali sugli scrittori quarantenni di casa nostra.

Mi rifiuto di riassumere il solito e stucchevole dibattito tra gli addetti. Basterà dire che sono intervenuti in massa gli over quaranta e se le sono date di santa ragione più per parlar male gli uni degli altri che per sviluppare una sana, equilibrata riflessione. Invece. Venezia 67 potrebbe davvero essere la sede giusta per impostare qualche opinione meditata sul cinema di Cinecittà (ormai occupata dalle televisioni) e dintorni.

Se non altro per il numero alto – quattro – di opere presentate in concorso, più decine di altre sparse nelle varie sezioni (che cercherò di visitare il più possibile). I titoli li conoscete già: La pecora nera di Ascanio Celestini, un regista- attore alla sua prima prova sul set sul tema ben noto degli ospedali psichiatrici; La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, tratto dal romanzo di Paolo Giordano, uno degli scrittori sotto i quarant’anni discussi nell’arena letteraria estiva; Noi credevamo di Mario Martone, un filmone di tre ore sul Risorgimento; e, infine, La passione di Carlo Mazzacurati, un autore non più giovanissimo (non è certo una colpa) ma che non è riuscito a “sfondare”, come si dice, al di là di un pubblico selezionato, forse fin troppo, non so.

Ognuno di questi film propone in chiave diversa un itinerario nell’Italia che conosciamo e che costituisce un vero rompicapo. Ricordo a questo proposito una presa di posizione di Ugo Pirro, lo sceneggiatore di tanti film tra cui Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Pirro, nel suo libro dedicato alla sceneggiatura, dice che nel pensare e nel fare un film una grande importanza ha il “Tema” generale in cui vive una società con il suo cinema. Già. Pirro non c’è più, ed è un peccato. La domanda che resta, è: ma qual è oggi il “Tema”, o si tratta di una foresta di temi che magari è (la foresta) il vero “Tema”?

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