Home Festival di Cannes Cannes 2011: La verità è che il cinema che passa ai festival ci piace sempre meno

Cannes 2011: La verità è che il cinema che passa ai festival ci piace sempre meno

Italo Moscati dice la sua sui film presenti al Festival di Cannes 2011

pubblicato 9 Maggio 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 12:10

Belle notizie per il cinema italiano, prima del via a Cannes+ e prima, molto prima, di Venezia: i due festival più importanti al mondo, ma forse ancora in difficoltà per la sempiterna concorrenza dell’Oscar (il festival dei premi più ambiti), sono amici e nemici, si amano e si odiano, si scambiano favori e sgambetti; insomma, si guardano in tralice, diffidenti, come Berlusca e Sarkozy.

Cannes annuncia di avere inventato un premio alla carriera destinato meritatamente a Bernardo Bertolucci? Venezia, con Muller che si scatenerà quest’anno di scadenza del suo mandato, non abbandona i suoi premi alla carriera, ormai incanutiti, promettendo il Leone d’oro a Marco Bellocchio. Dunque due italiani, bravi, nella galleria movie in the world, unione europea. Hanno i loro anni, ma sono ben svegli.

Mi è piaciuto in particolare quel che ha detto Bellocchio commentando la ri-uscita di una nuova versione del suo “Nel nome del padre”, film del lontano 1972. Il regista dei “Pugni in tasca”, sua grande prova d’esordio nel 1965, ha detto di aver tentato di attenuare con l’aggiunta di qualche minuto di pellicola e altre modifiche lo schematismo ideologico del film.

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E’ un’affermazione importante in un cinema popolato da regista impegnati che raramente sanno tornare sulle loro proprio opere con l’intelligenza di capire o meglio di ri-capirsi. Bellocchio è solo o comunque uno dei pochi. Lo ha dimostrato anche più avanti nella sua carriera quando si è allontanato dallo psicanalista Massimo Fagioli che aveva contribuito, forse esercitando una influenza troppo diretta e imperfetta sul lavoro del regista.

L’altra buona notizia è la partecipazione a Cannes di due film italiani, quello di Nanni Moretti, il discusso Habemus Papam, e quello di Paolo Sorrentino, con Sean Penn, This must be the place, di cui per ora si sa poco.

L’Italia, si domandano i cronisti d’assalto, sarà in grado di bissare il doppio successo di alcuni anni fa che premiò “Il divo” di Sorrentino e “Gomorra” di Matteo Garrone? Lascio a chi andrà a Cannes l’ardua attesa della risposta. Dopo anni di frustrate aspirazioni sbagliate e proteste noiose per la dimenticanza del nostro languido cinema.

Una impressione che ho, è che da tempo sia Cannes e Venezia si stiano sfidando più per gli omaggi e alle glorie del passato che per l’innovazione o la scelta di autori capaci di svegliare il cinema nel suo complesso, nonostante le iniezioni di simpamina (faccio per dire: roba da educande) di film asiatici, mediorientali, meticci o africani del nord).

Del resto, una tendenza sta prendendo sempre più corpo, leggendo i nostri giornali alla vigilia degli appuntamenti festivalieri. La tendenza al ricordo, al bianco e nero, al divismo, alle epoche delle leggende del gossip leggeri e leggiadri, delle feste e dei costumi da bagno, dei ristoranti famosi e delle gite in barca. I giornali ne sono colmi e svaligiano gli archivi.

C’è una ragione in questo. Il ricordo vola agli anni cinquanta e sessanta, quando Hollywood, Cinecittà, Pinewood e altre fabbriche del cinema dominavano il mondo con uno sfarzo spettacolare fuori e dentro le sale di proiezione. Poi arrivò Jean Luc Godard con la, anzi, con le nouvelles vagues e disse che il “cinema di papà” (Hollywood e fratelli) doveva morire.

Da allora, in effetti, il cinema a basso costo, indipendente, più curioso e ardito ha martellato le adeguate bare. Adesso però le bare sembrano finite. Il cinema ha sepolto abbastanza papà, zii e nipote. E si guarda un po’ smarrito. Che fare? In attesa di risposta omaggia i divi in bianco e nero, si dedica alla memoria e ai premi alla carriera. Sperando in un futuro migliore.

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