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Quando il cinema viaggia

Da “Viaggio sola” a “Into the Wild”, passando per “Pane e Tulipani” e “Una storia vera”, il cinema che tratta il tema del viaggio è un genere che non conosce soste. Una metafora di svolta e maturazione dei protagonisti che non sempre coincide con la tipica vacanza.

pubblicato 11 Agosto 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 11:10


Il tema del viaggio nel cinema è uno fra i più “tosti” da analizzare, perché di quelli che per poter essere affrontati in maniera non banale richiederebbe almeno lo spazio di un saggio. Del resto non bisogna dimenticare che il cambiamento e la conseguente “svolta” di un personaggio (la “crisi”), risiedono nell’ossatura di qualsiasi sceneggiatura e determinano il “quid” necessario per agganciare subito l’interesse dello spettatore e facilitargli l’identificazione nei protagonisti.

Tutte le storie, al cinema, parlano di una trasformazione e tutti i viaggi (cinematografici) sono quindi il terreno d’elezione ideale per rappresentare questa maturazione. In più il film, con le sue ellissi e i suoi movimenti, consente al meglio di condensare percorsi e tragitti, proprio perché può concedersi il lusso di scavalcare tempi, dilatare gli istanti e sintetizzare i giorni. I film sul viaggio sposano per definizione la metafora del cambiamento. Per questo alla fine di quelli più riusciti ci sentiamo quasi come i protagonisti, travolti dai loro eventi e avvinti dalle medesime emozioni. Consapevoli, in definitiva, di non aver “camminato” invano.

Il delizioso “Viaggio sola”, con la sua protagonista Margherita Buy, ospite a sorpresa (e temuto) dei resort a cinque stelle, è l’ultimo titolo in ordine di tempo di una gallery a dir poco sterminata sul film in viaggio. Se è impossibile elencarli tutti (anche perché ciascuno di noi, per motivi personali, potrebbe avere a cuore titoli ben più “insospettabili”), tentiamo quantomeno di cavalcarli con leggerezza più “estiva”, restituendo i titoli o le variazioni sul tema più significative della settima arte.

Il viaggio inteso come cambiamento non è soltanto quello della Buy, puntiglioso ma infelice recensore di alberghi senza fissa dimora (soprattutto emotiva), ma, per restare sempre in Italia, anche quello di “Pane tulipani”, dove Licia Maglietta è una moglie insoddisfatta capace di mollare affetti e agiatezza per avventurarsi tutta sola a Venezia, alla ricerca di una dimensione sentimentale ed esistenziale più appagante. E parlando di donne in fuga è praticamente impossibile non citare il più duro e seminale “Thelma & Louise”, pellicola che ha cambiato la percezione del road-movie e scolpito nella roccia (del Grand Canyon) due monumenti alla libertà dal resto del mondo. L’istantanea finale non fa che ribadirlo: cinema e concetto di fuga si sono fusi per sempre in una polaroid e le due casalinghe sono il moderno monolite che li rappresenta.

E il viaggio al femminile non cambia se a intraprenderlo è una donna non ancora “tale”, come il transessuale Bree di “Transamerica”, in marcia verso l’intervento chirurgico “definitivo”, e che durante il suo tragitto attraverso gli States si riappropria dell’ultimo tassello- il riconoscimento come “padre” da parte di un figlio mai conosciuto- che renderà più consapevole l’ultima tappa della sua “transizione”. Dramma ruvido ma sincero, da accompagnare magari col più glitterato e leggero “Priscilla- la regina del deserto” dove la serietà (perché anche qui alla fine c’è un figlio da riconoscere e col quale ricongiungersi) si fonde alla “favolosità” di tre memorabili drag queen, isole felici di un’umanità affetta ancora da stupidismo e insensibilità.

Quante volte poi il viaggio diventa tragi-comica occasione di (ri)scoperta familiare? Ne sa qualcosa il bizzarro gruppetto protagonista di “Little Miss Sunshine”, che, stipato tutto in un dissestato Volgswagen T2, s’imbarca avventurosamente attraverso le autostrade degli States in vista della partecipazione della figlia piccola alle (mostruose) nazionali di baby Miss America, dove il defunto nonno (eroinomane) paleserà la sua ultima e più esilarante eredità. Struttura ripresa quasi da “National Lampoon’s Vacation” (must della commedia anni ’80 tutto da riscoprire) ma, ovviamente, con meno goliardia e una consapevole amarezza. E se, restando in tema di viaggi familiari, i memorabili Armando e Cristiano di “In viaggio con papà” vi sembrano meno eleganti per figurare in questo elenco (ma il film, oltre ad essere un passaggio di staffetta fra Sordi e Verdone, fotografa con esattezza vizi e abitudini dell’Italietta di ieri e oggi), provate allora con il viaggio di conoscenza fra fratelli diversi di “Rain Man-l’uomo della pioggia”, dove un anaffettivo Tom Cruise si misura con l’eredità paterna di un fratello autistico, verso il quale l’amore nascerà tra alberghi, autostrade e casinò di Las Vegas.

E l’ombra di un familiare poco conosciuto anima anche il viaggio di Sean Penn-Cheyenne attraverso i deserti di “This mus be the place”, dove la ricerca di un aguzzino nazista, più che finalizzata a fare giustizia, sembra il dolente pretesto per riappropriarsi di un rapporto e di un tempo perduto. Ed è ancora il tempo quello che David Lynch pone al centro del suo splendido “Una storia vera”, dove il mezzo di trasporto utilizzato (un trattore, per la prima volta nella storia) serve a dilatare ancora di più l’epicentro emotivo della vicenda, quella che vede il settantenne Alvin Straight macinare più di quattrocento chilometri, a 5 miglia all’ora, solo per ricongiungersi al fratello infartuato e col quale non parla più. Un itinerario attraverso l’anima rurale dell’America e i valori fondanti dell’essere umano. Chiusura secca da colpo al cuore: “Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?” chiede il fratello.”Sì, Lyle”.

Ma il viaggio può essere anche uno splendido romanzo di formazione giovanile come dimostra quel piccolo capolavoro che è “Stand by Me-Ricordo di un’estate”, uno dei pochi film capaci di mettere a fuoco l’adolescenza senza mostrarne odiose manie o gli scontati tormenti amorosi. Ci riescono egregiamente King (scrittore) e Reiner (regista), insieme mirabili cantori di un passato che è già futuro (disilluso), con l’ombra della morte (il corpo di un coetaneo da trovare) che grava su tutti e quattro i dodicenni protagonisti. “Non ho più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni.. ..Gesù, ma chi li ha?” Chi non si commuove è di marmo.

Sono i viaggi tragici (degli altri) che ci insegnano qualcosa di importante sulla vita. “Into the Wild” è diventato ufficialmente l’inno cinematografico alla libertà del terzo millennio, ma è anche il film che celebra il crollo del mito dell’uomo in comunione spirituale con l’ambiente: la natura non è soltanto quella selvaggia che obbedisce alla propria crudele diplomazia, ma è anche quella umana. Per questo la felicità nasce anche dalla condivisione dei sentimenti (dolore compreso) coi propri simili. Sarà per questo che i viaggi si risolvono spesso in un’ esperienza condivisa. Accade costantemente nei primi film di Gabriele Salvatores, probabilmente il regista italiano più “itinerante”, nonché quello che più di ogni altro ha saputo rendere il viaggio sia come fuga dagli orrori (accade in Mediterraneo), che come esperienza generazionale e solidale (Marrakech Express).

E se il viaggio è fondamentale non dimentichiamo anche i mezzi di trasporto con tutte le loro implicazioni. L’aeroporto, più che la stazione sembra essere diventato oggi il luogo cinematografico più metaforico del cinema recente. L’aerostazione- limbo del profugo senza (più) patria Tom Hanks (The Terminal), il confortante non-luogo in cui transita George Clooney con la sua zavorra fisica “a peso esistenziale zero ” (Tra le nuvole) e infine quello verso cui si dirige il Bill Murray di “Lost in translation”, che nel tragitto dall’America al Giappone non perde soltanto frammenti di comunicazione, ma anche il sogno di un amore intercontinentale. O forse no, visto che il film sceglie di racchiudere il suo segreto in una frase che noi spettatori non potremo udire.

In barba alla malinconia scelgo infine di chiudere questa (assolutamente personale) panoramica sui film in viaggio con uno di quei guilty pleasure cui più mi sento affezionato per età e affinità cinefila. Da consigliare a tutti i futuri fruitori di aeroporti, stazioni e ferrovie è l’indimenticabile commedia “Un biglietto in due” con Steve Martin e il compianto John Candy alle prese con disavventure vissute in epoca (felicemente) pre-tecnologica. Qui non c’è nessuna diavoleria i-tech a facilitare i viaggi dell’improbabile duo, ma, in compenso, tante spassose verità sui tic e manie della convivenza forzata fuori casa e un sano sentimento d’amicizia a siglare le risate. Buon viaggio dunque a chi parte davvero ma, soprattutto, a chi lo farà restando in casa in compagnia di un buon film.