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Cinema italiano tra presente e passato: non dimentichiamoci del coraggio

Cinema, storia di autori? Macché, anzitutto storia di produttori. E più in generale storia di gente che non ha paura ma che non è avventata. Oggi come ieri

pubblicato 18 Dicembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 06:00

Esiste un elemento implicito nell’argomentazione che Gabriele ha approntato in sede di recensione di Colpi di fortuna, su cui però lo stesso non ha avuto modo di soffermarsi nell’articolo. E c’è da capirlo, perché dinanzi a tanta compiaciuta pochezza non si sa da dove cominciare. Eppure è evidente che anche a lui, come a tanti, non sfugga un elemento essenziale. Qui un po’ tutti si domandano se sia difficile o meno trovare qualcuno che sappia fare lo sceneggiatore, il regista o chi per loro dalle nostre parti, ma ricordiamoci che la storia del Cinema, dovunque e comunque, è anche storia di grandi produttori. Esattamente quelli che a noi mancano.

E non parlo di «dimensioni», perché grandi sono quelli che abbracciano il rischio anziché fuggirlo; quelli che oltre al sacrosanto interesse per il riscontro al botteghino hanno un’idea più ampia e di pubblica ricaduta su un mercato o un cinema se non strettamente nazionale di certo espressione di un popolo, sgangherato per quanto possa essere. Un cinema che documenti la vitalità anche di pochi a beneficio di tutti, che non ha necessariamente bisogno di etichette o nuove correnti. Ad oggi fa ancora specie come nell’Italia dell’immediato dopoguerra possa essersi imposto in maniera così netta un fenomeno così imponente come il Neorealismo, da cui poi successivamente quasi tutti presero le distanze: Fellini, che da lì inizialmente ed inevitabilmente attingeva, ci mise poco a passare dal cinema verità al cinema bugia, il suo preferito; Antonioni avvertiva che, dopo averlo in qualche modo fondato quel neorealismo, fu anche il primo ad abbandonarlo. Non deve stupirci: l’italiano, piaccia o meno, è sempre stato frammentato, diviso ed insieme unico. Come sia possibile conciliare questi estremi opposti lo si può in parte comprendere studiando la storia di coloro che l’Italia l’hanno “fatta”, quasi sempre singoli quasi mai scuole di pensiero. Anche i santi sono sempre stati figure a sé, e per un San Francesco nemico della cultura in ogni sua forma c’era almeno un francescano di nome Sant’Antonio per cui invece ‘sta cultura non era poi così malvagia ed infatti se ne servì per diventare uno degli oratori più seguiti ed encomiati di sempre.

Tutto ciò in risposta a chi si aspetta un nuovo neorealismo, una nuova nouvelle vague o chissà cosa dalle nostre parti: non arriverà, e non perché banalmente non abbiamo persone in grado di costituirla, bensì poiché la storia ci dice che le nostre tappe sono costellate di punti e non di segmenti. Ancor di più oggi, in un’epoca che scoraggia all’inverosimile l’aggregazione, paradosso inaccettabile agli occhi e le orecchie di chi crede fermamente che nel mondo attuale si sia davvero «tutti più connessi» che mai. Come sostiene Sherry Turkle nel suo Insieme ma soli, oggi siamo radicalmente soli ma non coltiviamo affatto la solitudine. Ed allora addio anche ai puntini.

Ecco, la rete. Al di là di esperimenti tutt’altro che innovativi, oltre che raramente competenti, quali web series, film distribuiti attraverso internet et similia, cos’altro? E in questi casi parliamo di più o meno giovani volenterosi indipendenti, non di rado privi non solo di mezzi ma anche di talento, che bontà loro si cimentano in qualcosa che è più grande di loro. Non voglio affatto scoraggiarli, anzi, pare che se “rinascita” dev’essere non vedo da dove altro possa partire allo stato attuale. E qui ci ricolleghiamo a quanto dicevamo in apertura: i nostri produttori, in tutto questo, dove sono? E i nostri distributori? Che rapporto hanno, se ne hanno, con i nuovi media a parte la promozione su Facebook, vari siti e Twitter?

Mi sento quasi in imbarazzo dinanzi a tanta, abbagliante evidenza. Eppure c’è da andare sino in fondo e non limitarsi alla timida domanda. Come i produttori di Fuga di Cervelli trovano all’incirca 2 milioni di euro ed il non indifferente ausilio di Medusa per produrre e distribuire un film strutturalmente modesto, dall’appeal limitato? E badate bene, qui non ci sono giudizi strettamente di merito; stiamo andando oltre il semplice «è bello è brutto», perché la nostra domanda non è tesa a cercare consensi o dissensi, dettata com’è dalla sincera curiosità circa le dinamiche di fondo in un’operazione di questo tipo. Solo incalzando chi i mezzi e gli strumenti li ha si può cominciare a risalire al vero problema, che è sempre lì davanti ma che pare si scorga in maniera costantemente opaca.

Italo Moscati ha in questi giorni pubblicato due pezzi alquanto interessanti a riguardo (qui e qui), sebbene approdi all’argomento in questione facendo il giro largo. Niente di nuovo sotto il sole, argomenti ai quali lo stesso Moscati ricorre sovente nei suoi importanti contributi. Anche qui però, a che pro stare sempre lì a rievocare glorie andate, correndo anche il rischio di rimanere intrappolati in ricordi che in quanto tali possono fare la differenza solo per ciascuno di noi, intendo interiormente? Il presente non lo si costruisce coi ricordi, bensì con il desiderio e la laboriosità di chi crede in un contesto alternativo, che dice benessere e non desolazione. Non il benessere fittizio propagandato, di dritto o di traverso, da certi nostri autori completamente scollati dalla realtà: parliamo di quello che vuole un’industria attiva e propositiva, per certi aspetti pure “educatrice” di un pubblico che si può incolpare fino a un certo punto.

Perché ciò che Moscati ed altri competenti radiografi del nostro cinema non dicono (pur sapendolo benissimo) è che i vari Fellini e Antonioni qui da noi fortuna ne hanno avuta sempre molto poca. Molto considerati ma poco seguiti, artisti di questa portata potevamo permettersi di girare i propri film per certi aspetti «anti-commerciali» anche in virtù di un’industria viva, pulsante, quantunque imperfetta. In compenso francesi e chi per loro gongolavano davanti a film come L’avventura o . I vari Lenzi, Martino, Castellani ed altri ancora giravano film che si vendevano bene non solo tra le mura di casa ma soprattutto all’estero, anche in quegli Stati Uniti da cui un certo Tarantino fece loro eco e non solo attraverso il suo cinema. Fu una stagione meravigliosa per il nostro cinema, tra commediacce, poliziotteschi, cappa e spade e b-movie di varia natura. Era diffusa la percezione di industria, quella pragmatica che sa “sporcarsi le mani” se necessario, ma a cui dobbiamo molto come spettatori e come appassionati.

E in fondo pare questo il destino dei produttori, grandi o piccini che siano, oggi come allora. Non abbastanza esaltati all’epoca, quando anche dal loro operato, talvolta estremo, passava quel cinema che avrebbe fatto la storia del mezzo tout court e non solo le fortune di quello nazionale; non abbastanza sollecitati adesso, che in tanti, troppi casi (salvo poche eccezioni) mostrano un’apatia disarmante, trascinando con sé un’industria che non esiste e dei cui fasti vivono tanti uomini di buona volontà ma di nullo potere.