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Auguri ad Alan Parker

Alan Parker compie 70 anni e Cineblog lo omaggia con un disegno e un ricordo. Breve viaggio attraverso un autore fondamentale degli anni ’70 e ’80, facilmente bollato come regista “estetico” da una critica fin troppo superficiale.

pubblicato 14 Febbraio 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 04:19

Oggi, San Valentino, il cinema festeggia grazie a un “Colazione da Tiffany” restaurato, l’inedita coppia Verdone-Cortellesi e storie invernali di ordinarie reincarnazioni. Ovunque si sprecheranno sondaggi e classifiche sui film più romantici di sempre, il bacio più intenso dei 100 anni e gli amori più belli o sfortunati. Personalmente il mio piccolo gesto d’affetto “cinefilo” preferisco invece rivolgerlo ad un regista che proprio oggi ha raggiunto il traguardo dei 70 anni. Un artista a mio avviso fin troppo sottovalutato dalla cosiddetta “critica che conta” e questo negli anni stessi in cui ha operato assiduamente.

Sto parlando di Alan Parker, classe 1944, esponente di una generazione di registi britannici (la stessa che annovera nomi come Ridley Scott e Adrian Lyne) cresciuta a spot e commercials fra gli anni ’70 e gli ’80. Un’attività evidentemente giudicata “bassa” da certa critica altezzosa che infatti non ha mai mancato di rimproverargli, in assenza di argomenti migliori, la superficialità dei suoi impianti e delle messe in scena.

Ristabiliamo un po’ di giustizia allora e diamo al regista quel che gli è sempre appartenuto. Perché probabilmente quella critica già allora si dimenticava che la pubblicità, oltre a costituire una palestra indispensabile per educare qualsiasi giovane filmaker tanto al ritmo quanto all’estetica, era anche uno dei territori espressivi più stimolanti, di quelli che obbligavano a sintetizzare “senso e sensibilità” nell’arco di pochi, cruciali secondi. Anche il bistrattato Adrian Lyne ne sapeva qualcosa e infatti quel capolavoro horror in netto anticipo sui tempi conosciuto come “Allucinazione perversa” è passato inosservato davanti a critici troppo presi a smontare un regista, “reo” di aver realizzato manifesti estetici per generazioi (Flashdance, 9 settimane e ½) o thriller di costume impeccabili (Attrazione Fatale).

Parker, in maniera meno “esibita” di Lyne, riesce invece a incamerare le lezioni fondamentali della pubblicità, traghettando in modo più naturale la filosofia di quel linguaggio all’interno dei suoi lungometraggi, pellicole che non a caso risultano dotate di un ritmo e un senso estetico inequivocabili (proprio come il primo, ma più “viscerale”, Ridley Scott). Opere che scorrono fluidamente su una musicalità non soltanto sonora ma soprattutto narrativa; che si tratti di musical, drammi o commedie infatti quei film filano lisci come spot, ovviamente non più compressi dai canonici 30 secondi. Nella critica più prevenuta, incapace di lasciarsi andare a un simile e “inconfessabile” piacere, resta solo la sensazione di artificiosità. Per loro quelle pellicole sono troppo “pulite” per costituire davvero cinema. Ed è qui che si sbagliano, perché di cinema, nei film di Alan Parker, ce n’è davvero.

Dalla commedia musical- gangsteristica di Bugsy Malone (Piccoli Gangsters) al dramma carcerario di Fuga di mezzanotte passando per il racconto intimista di Spara alla luna o per quello di formazione racchiuso in Birdy, Parker non nega mai le dinamiche richieste dai singoli generi, ma la sua sensibilità estetica incornicia ogni sviluppo narrativo dentro inquadrature ricercate, fasci di luce espressivi e una fotografia che non lascia nulla al caso. Immagini strategiche e perfette ma che continuano a parlare di cinema.

Guardare Fame-Saranno famosi (alla larga l’insulso remake) e rendersi conto che non è soltanto un’opera dai toni caldi e avvolgenti ma anche un dramma giovanile cui si partecipa sinceramente fra ambizioni frustrate, emancipazioni impossibili e sessualità combattute. Assistere a un horror come Angel Heart e realizzare non solo che è montato e fotografato con perfetto (e geometrico) senso dello spettacolo, ma soprattutto che tra luci taglienti e coreografie traslucide, l’olezzo del sangue di gallina e il fiato caldo del voo-doo si percepiscono davvero.

Poi c’è il musical, amore primo del regista, da quello declinato in chiave di ridondante e al tempo stesso sublime opera rock (The Wall), fino a quello servito da impianti teatrali infallibili come Evita, pellicola assai sottostimata cui il regista invece conferisce, grazie alla scelta di Madonna, un’insolita ambiguità grazie all’inevitabile parallelo fra la pop star assetata di successo e quella Eva Peròn in cerca di conferme. Film che si venerano come piaceri proibiti, visivamente sontuosi e tecnicamente ineccepibili, sebbene la migliore incursione musicale del regista rimanga, almeno per il sottoscritto, il più “indie”, sboccato e sincero The commitments.

Il suo sguardo, più incerto quando si posa sul puro melò (Benvenuti in paradiso, Le ceneri di Angela), riaffiora potente nel dramma di denuncia, si tratti degli orrori del Ku-Klux- Klan (Mississippi Burning) o di un tema fortemente americano come quello della pena di morte (The life of David Gale). E’ in quest’ultima (nonché sua ultima) pellicola, thriller giudiziario sospeso fra denuncia e derive psicologiche, che viene a palesarsi anche una certa ambiguità politica di sguardo sullo spinoso tema a stelle e strisce, quella stessa ambiguità che ha fatto amare o detestare il film dai critici.

Se però è il vero cinema a dividere, allora non sono semplicemente videoclip quelli che Parker ha realizzato in trent’anni di carriera e che i detrattori (leggi “critica blasonata”) vorrebbero attribuirgli con tanta facilità.

Buon San Valentino allora, ma soprattutto auguri Alan!