Home Venezia – Una domanda: perché Martone non viene mai citato tra i migliori registi del nostro cinema?

Venezia – Una domanda: perché Martone non viene mai citato tra i migliori registi del nostro cinema?

Con “Il giovane favoloso” Mario Martone è in concorso, viene dal teatro ma ha anche un lungo curriculum di film, però…

pubblicato 2 Settembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:37

Era atteso questo “Giovane favoloso” di Mario Martone, che cominciò nel 1977 in teatro e continua col teatro come direttore dello Stabile di Torino? Non so dirlo, o meglio lo dico sussurrando, però dopo aver enumerato i suoi film, da “Morte di un matematico napoletano”,che fu un buon esordio nel 1992, “L’amore molesto” (1995), “Teatro di guerra” (1998), “L’odore del sangue” (2004), “Noi credevamo” (2010) e adesso “Il giovane favoloso”.

Il film era atteso con una certa sufficienza. Martone è stimato ma non entusiasma, il pubblico specialistico della Mostra lo prende con le molle come una castagna che scotta, nelle sale cinematografiche tutti i suoi film passano più disavventure che avventure; nelle graduatorie non scritte dei nostri registi, o solo chiacchierate, il suo nome figura poco o non figura affatto.

“Il giovane favoloso” viene a proposito. Non dico che lo si possa considerare un vero e proprio kolossal, ma l’impegno produttivo si vede, il cast degli attori è tra i migliori, i collaboratori per costumi, scene, musica, montaggio sono di qualità. E’ tutto posto, però… Il giovane favoloso è Giacomo Leopardi. Favoloso sì ma subito vecchio, mai stato giovane, solo bambino, mai giovane: in lui, l’età fresca finisce presto. Martone organizza con classe e intelligenza una rappresentazione calma, senza scosse, prendendo per mano il poeta, lo accompagna nella sua vita tormentata e affascinante, affascinante come quella di un poeta, di uno scrittore che ha preso parte della nostra comune esperienza di studenti e riposa in pace negli angoli della nostra memoria.

Martone un disegno ce l’ha e, con esso, sposa teatro e cinema. Infatti, il film nasce da un interesse del regista che ha avuto come rampa di lancio le “Operette morali” del favoloso Giacomo e, studiando studiando, immaginando immaginando, è passato al progetto cinematografico, qualcosa di totale e di esaustivo, dalla culla alla fine, davanti a un cielo stellato, davanti al Vesuvio in eruzione. Questo film ha avuto come radice non solo la sconsolata biografia di Giacomino, il gobbo di Recanati; ma anche il lavoro precedente, il film “Noi credevamo”, sul Risorgimento italiano, scritto insieme a Giancarlo De Cataldo, che è l’altra radice, quella storica, a sua volta innestata nel grande tema del Giacomo poeta civile che parla dell’Italia e degli italiani, facendone un altro specchio di una seconda profonda insoddisfazione. Chiamoli così, “insoddisfazione”, i dolori di Giacomo per la vita fisica in cui si è trovato e lo scatto meditato con giudizi severi, sprezzanti, sulle classici dirigenti, e non solo, del nostro Paese. Si tratta di radici che serpeggiano in profondità e lì rimangono, affiorando di tanto in tanto, come un grido, no, anzi come un lamento accorato, profondo, disperato, che gli resta in gola, soffocato, impotente, come una eruzione vulcanica che non si sfoga.

Non racconto il film passo passo. Le informazioni sono le stesse che abbiamo avuto nei ricordi di scuola o abbiamo letto, spiato ogni volta che si tornava al genio di Giacomo e alla sua figura di uomo: corroso dai desideri d’amore, per le donne e gli uomini, scegliendo esso stesso le vie per essere rifiutato. Disgrazie e sogni d’amore, sogni e occhi innamorati del bello che non si può avere fino in fondo perché non ci si riconosce degni di goderli.

Il film è malinconico, troppo; manca di ritmo, anzi di ritmi che avrebbero potuto o dovuto venire dati da una curiosità coraggiosa, spinta, scandalosa; non è simile a uno sceneggiato televisivo, come stolti critici hanno detto, ma il passo è troppo lento e greve. Non c’è aria, non c’è l’entusiasmo proibito, e irritante, che un regista può e deve avere per stanare il “suo” personaggio, qui il “suo” Giacomo, per restituircelo in furori e insensatezze, riuscendo a rubargli l’intimo dolore, l’intima passione e voglia di vivere. “Il giovane favoloso” scorre compiaciuto come un vecchio fiume italiano, placido e ramingo. Gli attori sono tutti bravi, ma Elio Germano restituisce un Giacomo che viene distillato come un rosolio che ha momenti di soffocata rabbia.

Ecco. Forse Martone è nell’elenco dei nostri registi di qualità, ma sopportato, confuso o dietro gli altri, perché gli manca il ritmo, l’anarchia del cinema, il cinema scomposto ed esagerato ma lindo come un lenzuolo bagnato ai raggi del sole; gli mancano i colpi dell’anima e del corpo, sommersi in una partitura di musiche e di immagini solenni come per un funerale poco favoloso.

Foto di Mario Spada

Festival di Venezia