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Antonia: vita e poesia di Antonia Pozzi al cinema

Gli ultimi dieci anni di esistenza poetica di Antonia Pozzi sul grande schermo con l’opera prima di Ferdinando Cito Filomarino, in anteprima al Festival di Karlovy Vary

di cuttv
pubblicato 4 Luglio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 14:32

Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti – sul mio volto.
Convegno, 29 maggio 1935, Antonia Pozzi

Un convegno che si libra ben oltre i limiti del razionale, quello di Antonia Pozzi (1912-1938 ), quanto promette di esserlo il ritratto che Ferdinando Cito Filomarino ha deciso di dedicare a questa giovane donna e sublime poetessa del novecento, con la sua opera prima, prodotta da Luca Guadagnino.

Antonia, unico film italiano presentato oggi in anteprima mondiale, in concorso alla 50esima edizione del Festival di Karlovy Vary, nella Repubblica Ceca, si eleva infatti insieme alla poetica sospesa tra l’arte e gli ultimi dieci anni di vita della giovane poetessa, morta suicida il 3 dicembre del 1938, a soli ventisei anni.

La giovane donna che scriveva in segreto sin dall’età di sedici anni,affidando al suo diario, amori impossibili e passioni, incontri e tormenti, avvenuti nella Milano del ventennio fascista.

Il viaggio che si spinge tra vita e poetica, seguendo i riflessi che si stagliano sul viso e sul corpo, muovendosi tra le pagine che scrive e le fotografie che scatta, l’appartamento alto borghese dei suoi genitori a le strade di Milano, dalla villa a Pasturo in Valsassina alla vetta di una montagna che scala, dalle persone che l’hanno toccata a quelle che si sono limitate a ferirla.

Il ritratto della poetessa milanese scritto da Ferdinando Cito Filomarino con Carlo Salsa, prodotto da Frenesy, Rai Cinema, con il supporto del MiBACT, Faliro House, in associazione con BNL Gruppo BNP Paribas, il supporto della Regione Lombardia, Lombardia Film Commission.

L’opera prima alla regia del lungometraggio per il Ferdinando Cito Filomarino del cortometraggio Diarchia, con Riccardo Scamarcio, Louis Garrel e Alba Rohrwacher, premiato ai Festival di Locarno, al Sundance, ai Nastri d’Argento, e nominato agli European Film Awards.

Uno sguardo promettente sulla giovane poetessa, già portata sul grande schermo dal cine-documentario “Poesia che mi guardi” di Marina Spada, presentato fuori concorso nel 2009 alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia; e il film documentario “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” di Sabrina Bonaiti e Marco Ongania, realizzato in occasione del centenario della nascita.

Intervista regista

Come e quando è avvenuto il tuo incontro con Antonia Pozzi e la sua poesia?
Luca Guadagnino era un amante della poesia di Antonia Pozzi da anni e ha sempre voluto produrre un film su di lei, me ne parlò pensando che io e lei ci saremmo “incontrati”. Sono sempre stato affascinato dagli artisti, e quando ho letto le sue poesie immediatamente trovato in quelle pagine scritte una forte affinità, poi ho subito letto i libri sulla sua vita, le sue lettere, osservato le sue fotografie e ho capito
il grande potenziale filmico di quei mondi “fusi” insieme. In più la mia simbiosi con il personaggio di Antonia abbraccia anche i luoghi geografici della sua vita, essendo nato e cresciuto anch’io a Milano e conoscendo molto bene
i luoghi della città e le montagne da lei frequentate, come per esempio le Grigne. I luoghi di questo film sono come dei personaggi per me nel modo in cui Antonia li viveva; non di meno Milano, una città poco raccontata, poco presente nel cinema di oggi, specialmente in chiave di epoca storica. Avevo insomma l’occasione di creare con il cinema il ritratto di un’artista e della sua arte.

Antonia sembra vivere dunque di analogie, di contatti, di voci che si incontrano a distanza. oltre alle tue “corrispondenze”, nel film incontriamo all’inizio la scultura di rodin e poi il canto di Piero Ciampi che “dà voce” al corpo nudo e imploso della poetessa…
Piero Ciampi era per prima cosa un poeta e un autore di canzoni che viveva, al pari di Antonia, un profondo e sincero tormento interiore. L’affinità poetica con Antonia e la scelta di inserire un brano degli anni Settanta in un film ambientato quarant’anni prima, sta nella priorità di raccontare qualcosa di intimo, di parlare di sentimenti senza tempo, e in quella sequenza i due sembrano quasi instaurare un dialogo. Lo stesso vale per Rodin, anche se nel suo caso la coincidenza con Antonia è plastica.

Pur avendo una struttura narrativa cronologicamente lineare, Antonia non è una biografia in senso “classico” ma bensì un ritratto dei suoi ultimi dieci anni di vita, conclusasi con il suicidio a soli ventisei anni.
La priorità del film non ha mai avuto a che vedere col narrare la nascita e crescita del personaggio “famoso” ma con l’intenzione di focalizzare l’inevitabile essenza poetica di Antonia che si esprime, come accade per tutti gli artisti, nella quotidianità, nei gesti, nel modo in cui raccoglie i fiori, nel modo in cui scrive. Quel decennio coincide con
la parte più intensa della sua vena artistica, dieci anni di fotografia e di poesia che cambiavano costantemente, e che contengono in realtà un percorso creativo quasi completo. Per usare un esempio-iperbole, con le dovute differenze, come Mozart, che anch’esso ha vissuto una vita breve, ma nella quale si è condensata un’intera carriera artistica.

Come hai trovato la giusta distanza per raccontare questo quotidiano? la tua macchina da presa si avvicina per gradi, sembra quasi attendere il momento giusto per i primi piani…
Ho cercato di entrare nella sua vita basandomi su quello che la persona di Antonia viveva nel corso di quei diversi anni. Quando Antonia era più giovane, nella prima parte del film, il suo sguardo è rivolto all’esterno, e mi ha tenuto in qualche modo “lontano” con la mia macchina da presa ad osservare insieme a lei. Nel filmare i suoi anni universitari, caratterizzati dalla confusione e dall’autoanalisi, c’è un contrappunto della macchina da presa che si muove diversamente da lei mentre nella terza parte, che racconta avvenimenti di pura introspezione, ci avviciniamo ancora di più. Potrebbe sembrare aprioristico ma tutto questo viene stimolato dal suo percorso poetico.

Ci sono dei ritratti d’artista cinematografici che hanno in qualche modo influenzato o ispirato il tuo film?
Brama di vivere di Vincente Minnelli ma più di tutti, per quanto lontanissimo, Andreij Rublëv di Andrej Tarkovskij, un film che non si focalizza sulla vita del suo soggetto ma sull’essenza dell’arte, una sorta di ideale per me – a livello evocativo e concettuale – di ritratto d’artista.

Chi conosce e ha letto le poesie di Antonia Pozzi può ritrovare e “riconoscere” in alcune scene i suoi versi. Come è avvenuto questo processo di ”selezione”?
È stato un lavoro lungo e complesso, gran parte delle scene sono basate sull’incrocio di poesie, lettere, racconti orali, e fotografie provenienti dall’Archivio Pozzi e altre fonti.
Sin dalla scrittura assieme a Carlo Salsa, co-sceneggiatore del film, la missione era di generare un film che fosse in profondo legame con l’opera e la realtà delle persone nella vita di Antonia. La selezione partiva prima di tutto dal primo stimolo avuto leggendo le poesie, e il modo in cui questo avrebbe potuto servire le necessità del racconto. Fino al montaggio, con Walter Fasano, l’opera di Antonia, e l’effetto che ha su di me, è sempre stata guida.

Nel film, i versi di antonia Pozzi non sono mai letti o declamati e in alcuni momenti compare, a punteggiare il racconto, anche la pagina “stampata”.
Non amo la poesia recitata, penso che la poesia sia parola scritta, anche se esiste una poesia che deve vivere oralmente, ma non è il caso di Antonia. La Pozzi fa poesia sulla pagina ed è così che vive – l’esperienza della sua poesia, a mio avviso, può solo essere letta. Queste poesie stampate sono un necessario accostamento, e in quanto parole stampate sono una sorta di testimonianza che la sua opera ha trasceso i quaderni scritti a mano e chiusi nel cassetto.

Nella storia di un’anima e di un corpo come quello di antonia Pozzi, incontriamo anche un grande conflitto con la sua epoca, una lotta di emancipazione, personale e professionale, che andava al di là del tragico momento storico del regime fascista.
Antonia aveva appena dieci anni quando iniziò il Ventennio fascista: una dittatura, un regime che entra nel privato, in casa tua. La generazione di Antonia Pozzi, cresciuta nel fascismo, ed in particolare quelli che come lei erano vicini alla cultura, si sentivano ed erano isolati, non vedevano il proprio futuro, non capivano dove potessero stare – tale
il peso irrisorio che il fascismo dava alla cultura che non fosse specificamente una sua appendice. Ugualmente nei giovani di oggi è innegabile il tratto di confusione, senza una visione concreta della propria rilevanza nel mondo presente, e ancora meno del proprio futuro. Il “problema” di Antonia è che non riesce a non essere se stessa, ed essendo incastrata in quella realtà, sopravvive al suo tormento gettandolo sulla pagina, che non trova riscontro nel suo presente e rimane nel cassetto. In più essere donna, inutile nasconderlo, non faceva che aggravare la situazione, nonostante tra l’altro una carriera universitaria di grande successo. Raccontare Antonia insomma è rilevante oggi proprio per questi motivi.

A proposito di gioventù, gli attori del tuo film, a partire dalla protagonista linda Caridi, sono corpi
Trovare dei corpi e dei volti inediti per questo film mi dava l’impressione che la ricostruzione storica potesse essere più credibile, ma la priorità era trovare persone che potessero raccontare intimamente questi personaggi realmente esistiti. Fin da subito avevamo intuito il talento di Linda, subito intrigata dal personaggio di Antonia; stessa cosa con Alessio Praticò, che interpreta Remo, e che abbiamo incontrato a lezione allo Stabile di Genova. C’è anche una parte di attori non professionisti, come ad esempio il pittore Luca Lo Monaco che impersona Dino Formaggio, nel suo caso c’è una connessione artistica fra i due e anche una certa affinità di personalità, o altri ruoli come la guida alpina, interpretato dal grande alpinista Hervé Barmasse, o il professor Alberto Burgio che interpreta Antonio Banfi.

Parlavi prima della “credibilità” della ricostruzione d’epoca. non ha mai pensato di girare il film in bianco e nero?
L’immaginario degli anni Trenta per chiunque non li abbia vissuti è inevitabilmente in bianco e nero. Girare questo film indipendente a colori era una missione molto difficile, ma parlando con il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, abbiamo concluso che se fossimo riusciti a forgiare una visione specifica di quell’epoca tramite luce e colori – insieme con i costumi e le scenografie – il risultato sarebbe stato triplo. In più sentivo che oggi l’uso del bianco e nero con questa epoca avrebbe in qualche modo relegato il film a una sensazione di “vintage”, mentre il colore poteva restituire il senso di un tempo che è parte di tutti i tempi.

Dopo la partecipazione in Concorso al festival di Karlovy Vary, che cosa ti riserva il futuro? stai lavorando a un nuovo progetto?
Sto scrivendo, con uno sceneggiatore americano, un film che è quasi l’opposto di Antonia, cercando di sovvertire un genere cinematografico che ho sempre amato: il manhunt movie, l’uomo braccato, ma il mio protagonista non è braccato dalla polizia e non è l’uomo sbagliato. Sarà il racconto intimo del turbamento del protagonista e forse sai, a pensarci bene, un’affinità con Antonia c’è: anche lui vive sul crinale tra il fuoco e il vuoto.
“vergini” per il cinema italiano.