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Gli occhi dei ragazzini sono cambiati: solo dolore

“Bestie senza patria” di Cary Fukunaga: vi ricordate il piccolo Staiola di “Ladri di biciclette”? era finita la guerra ma nello sguardo di questo protagonista del film di Vittorio De Sica c’era solo l’amore per il padre ladro derubato

pubblicato 3 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 13:07

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Sicuramente vi ricorderete dell’ultima scena di “Ladri di biciclette” fine anni Quaranta: un ragazzino (Staiola, virgulto d’attore) con la mano nella grande mano del padre che è sfuggito a un linciaggio per avere tentato di rubare una bicicletta, il mezzo di lavoro che a sua volta gli era stato rubato. Lo sguardo del ragazzino è colmo di lacrime. Una conclusione drammatica, il pathos dell’Italia del dopoguerra disoccupata e lontana dal miracolo economico che arriverà, durerà e farà capire che prima o poi finirà.

In “Beasts of No Nation” (Bestie senza patria”) Agu è un ragazzino che viene trascinato nella feroce guerra per eserciti e bande in un paese senza nome dell’Africa Occidentale. Nella Roma del dopoguerra, nel capolavoro del neorealismo realizzato da De Sica, il figlio in lacrime dispone di un padre da ricostruire. In “Beasts” Agu disponeva di una famiglia ma per la feroce guerra resta orfano e viene arruolato da uomini che allevano giovani feroci. Il vecchio neorealismo aveva un pathos che non chiudeva la porta alla speranza di un riscatto, sempre possibile quando il regista (De Sica, ma la cosa vale per Rossellini e altri neorealisti) mette questa intenzione nel tono commosso e fiducioso del racconto in cui domani può essere un altro giorno come il cinema insegna.

Agu è un ragazzo del Duemila. La sua storia accade in un’epoca in cui il cinema con Coppola e Kubrick ha mostrato un Vietnam insanguinato al napalm, i vietinamiti straziati, i marines impazziti, l’orgia di cocacola, wshisky e sangue in cui si è allungata come in una bara un’America che aveva perso la testa nel desiderio di essere capace di risolvere con la forza i problemi del mondo, e di pretenderlo in nome di una egemonia basata sulle risorse militari, i massmedia, la prontezza di intervento ovunque grazie ai servizi segreti. L’Africa di Agu ha sonori e colonna sonora che sembrano uscire dal cinema di Coppola, meglio ancora di Kubrick. I brividi sono di metallo, stridono, si contorcono, creano un abisso in cui precipitano tanti Agu.

Il cinema viaggia nel tempo e recupera grazie alla sua sensibilità (ad intermittenza) le piaghe del nostro tempo. Lo stile non è carezzevole e complice come era,com’è, nel neorealismo, è rapido, compulsivo, feroce per ritmo ed effetti come la realtà che mostra. Ma c’è un ma. La televisione bombarda i suoi spettatori con una catena infinita di scenari devastati e non può fare altrimenti, lo reclama il “diritto di cronaca”, ovvero la cronaca che impone il suo diritto a imporsi e a guidare le attenzioni sui fatti. La cronaca è esigente, comanda, è la “dittatura” dei fatti che “devono” essere e “sono” presenti, senza posa, senza interpretazione, senza pathos.

I ragazzini oggi non piangono, o piangono poco, nei paesi di un terzo mondo (l’Africa) che non è più terzo e nemmeno secondo,ma è nel primo per la sua espansione e economiche e nelle sue miserie. Tutto questo che effetto ha nel cinema e per il cinema?

“Bestie” accetta l’ambiguità tra il cinema dei Coppola e dei Kubrick e le televisioni che mandano in onda i loro serial della crudeltà sui ragazzini e con i ragazzini, e propone una denuncia che non cerca commozione eppure la provoca ma non la sostiene. Perchè non la sostiene? Perchè la bravura del regista è piena di echi e le sensazione si mescolano senza trovare una via di uscita. Questa è la forza (l’impatto realistico) e la debolezza (l’impassibilità di immagini prigioniere di crudeltà che conosciamo) di un film che bilancia le prime ore della Mostra. La “grandeur” di Orson Welles e le montagne 3D di “Everest”, film della inaugurazione ufficiale alla presenza del presidente Mattarella. Tra potenza visiva wellesiana, magia delle vette, ecco la scheggia sibilante Agu, come una raffica di mitra e un ombra di malinconia.

Nel globo degli Agu e dei giovani morti sulla spiaggia di Budrum (un piccolo siriano) e dentro il vano di un motore d’auto, piccolo migrante tra migliaia, milioni: un esodo ultrabiblico. L’esodo ultrabiblico inghiotte e digerisce le “Bestie senza patria”, e non si quando finirà. Ecco il problema, dopo che l’Occidente con la sua feroce violenza colonialista si è fuso con la violenza dei riti e la violenta, dissacrante sacralità della morte nel continente di milioni di neri. Senza più occhi sognanti, dolenti, in lacrime, con briciole di neosperanze.

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