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Liliana Cavani: cinema e poesia, a Recanati

La regista del “Portiere di notte” riceverà il 10 ottobre il Premio Ludovico Alessandrini, per la carriera

pubblicato 24 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 12:27

Liliana Cavani è la regista con la quale ho lavorato a lungo, mi hanno chiesto gli amici di Recanati di scrivere qualcosa su di lei per il Premio Ludovico Alessandrini. Ludovico, amico di Liliana e anche mio, scomparso in questi anni, era un giornalista, un critico, un produttore della Rai a cui si debbono diverse opere di registi promettenti poi diventati importanti, un lungo elenco. Gli hanno dedicato un premio nella città di Leopardi, appunto Recanati, di cui proviene la sua famiglia. Beniamino Gigli, omonimo del celebre cantante, mi ha chiesto di preparare uno scritto sulla Cavani, sul suo lavoro, frutto anche della comune esperienza di tanti film e sceneggiature realizzati, oltre una dozzina, e di tanti progetti rimasti nel cassetto o diventati libri per Einaudi e altri importanti editori. Il tema scelto è un modo per riflettere su un cinema che era ed è cinema, che ha contenuti, caratteristiche di qualità.

Parto da un fatto indiscutibile. I film di Liliana Cavani, una ricerca solitaria che ha trovato un grande pubblico, e i giusti riconoscimenti, senza cercarli. In essi il rapporto con la poesia è stato spontaneo, mai preteso, forzato. Il cinema e la poesia, la poesia e il cinema. Inscindibili. Dunque, la poesia. Tutti l’abbiamo scoperta a scuola, o in famiglia (in quelle benestanti). L’abbiamo letta, scritta (poveri lettori, poveri noi); e l’abbiamo lasciata ai pochi che frequentano le librerie, in coincidenza con i successi di poeti o meglio poetesse, come in questi anni Alba Merini, trascinata dalla sua sete di follia e d’amore, amore disperato,struggente per l’amore che non sappiamo mai cos’è; però ci illude, e spesso ne siamo felici. O come, da più anni ancora, indietro, di poeti diventati registi e anche corsari di scrittura: per la verità uno solo, Pier Paolo Pasolini col suo lungo e frastagliato poema personale, sociale, dedicato a una disperata vitalità, non solo la sua, anche la nostra, quando c’è la vitalità.

Conosco Liliana, ho lavorato con lei e ne ho ricavato una esperienza di cui mi vanto, silenziosamente, come piace a lei; lei che non ama i temi tipo, “la poesia e il cinema”, com’è giusto; i rischio di aria fritta è alto, specie per gente come noi, abituati a verniciare con presunzione gli argomenti, il più delle volte. E’ meglio lasciare il trapassato e cominciare dal cinema e non dalla poesia, un passato di un secolo e poco più.

La ragione mi pare semplice. Ad un certo punto della storia, negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, è successo “qualcosa” che non era mai accaduto prima. Nei bistrò, nelle salette, nei circhi parigini, si è verificato il “qualcosa” prima impensabile. E cioè che un treno entrasse in una stazione, e spaventasse chi era seduto davanti ai primi, precari schermi; o che un giardiniere si chinasse su una inaffiatrice che non funzionava e che all’improvviso rischiasse di annegarlo con il suo getto. Erano le prime pellicole dei Lumière. Poco dopo, un altro fatto sconvolse occhi, cuore e sensi del pubblico: un razzo, pensato e costruito dall’artigiano Mèlies, volasse nello spazio e rendesse orbo il nostro satellite, la luna.

Questi ricordi cambiarono la poesia e il mondo. Non era più la parola a scrivere poesia, e non lo era la fotografia che nella sua splendida immobilità toglieva lo sgabello sotto i piedi degli artisti. Era arrivato, e arrancava il primo cinema per poi esplodere in una forma di racconto sciolto nella narrazione che costruiva nuove immaginazioni. La storia del cinema lo documenta. E non credo che si debba andare oltre. La poesia era la nuova sostanza dell’arte del cinema, una sintesi e un rilancio dell’arte, un nuovo territorio di esplorazioni. Un territorio ampio e inesplorato su cui nel Novecento mettevano, hanno messo, le mani le ideologie per usarlo come praterie in cui fare le loro irruzioni, i loro comodi: propagandarsi, elogiarsi, creare consenso, con immagini (anche splendide) delle dittature.

Le immagini, quelle di Leni Riefenstahl ad esempio, regista estetizzante preferita da Hitler. La Riefenstahl filmava per conto di costui ma i suoi film le sono quasi scappati di mano,si sono rivoltati contro; e ai nostri tempi sono diventati una forma straordinaria di documentazione e di denuncia di Hitler e di ciò che intendeva creare di perverso. Questo ho capito conoscendo Liliana, collaborando con lei, vedendo i suoi primi film docunentari di Liliana: “Il Terzo Reich” e, dedicato al comunismo post rivoluzionario , “L’età di Stalin”.

I documenti nella sua regia subivano una trasformazione che veniva da una accurata fedeltà storica e diventavano un’ opera “autonoma”, “nuova”, la cui estetica non apparteneva solo a una storiografia corretta ma ad una evocazione sottile e sempre più potente; non ricostruita ma “vissuta” nelle immagini ordinate con sapienza, per favorire comprensione e soprattutto fascino del racconto, attraverso testo, montaggio, colonna sonora che andavano a creare suggestioni diverse, coinvolgenti, indimenticabili.

Tutto questo lo si può chiamare correttamente “poesia”. Lettura svincolata, libera, disposta a colpire senza fare lezione, a sedurre con le vicissitudini di moltitudini in divisa, stordite dalla propaganda e poi dalle raffiche, dalle bombe e dalla visioni tardiva e sconvolgente dei campi di sterminio. I documentari sono stati un primo passo in un cammino di molte esperienza insieme, io come co-sceneggiatore, in film come “I cannibali”, “Milarepa”, “Portiere di notte”, “Al di là del bene e del male”, per citarne solo alcuni, e altri.

In tutta la carriera della Cavani scorrerebbe quel nel linguaggio risaputo viene chiamato per un autore il “fiume carsico” dell’arte, dello stupore e dell’incanto di lavori che restano e resteranno. Non si tratta di un “fiume carsico” : arte, stupore, incanto, idee, emozioni fanno parte di un’unica, continua e ininterrotta ricerca intima, un bisogno continuo di fare di scoperte, una sete e curiosità di pensieri e di confronti, una elegante elegia di situazioni, terre, storie, personaggi appartenenti a paesi, popoli. Diversità.

Una ricerca di onde furiose o increspate, capaci di respirare col vento e trovare una possibile , forse utopica armonia. Questa è la poesia del cinema di Liliana, a mio avviso. Una cosa sola. tra cinema e poesia, tra poesia e cinema. L’ho appreso lavorando a “I cannibali”, “Milarepa”, “Portiere di notte”, “Al di à del bene e del male”, “Dove siete? Io sono qui”…