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Cineblog consiglia: L’imperatore di Roma

L’imperatore di Roma Regia: Nico D’Alessandria. Con: Gerardo Sperandini, Giuseppe Amodio, Fulvio Meloni. Italia, 1987. Dramm. b/n 90′.La Roma di D’Alessandria non è (quasi) più quella di Pasolini, ma l’occhio è lo stesso di “Accattone”. Come il regista friulano aveva superato il neorealismo, non limitandosi a descrivere la realtà italiana del periodo, ma conferendo ai

10 Agosto 2007 14:08

L’imperatore di Roma Regia: Nico D’Alessandria. Con: Gerardo Sperandini, Giuseppe Amodio, Fulvio Meloni. Italia, 1987. Dramm. b/n 90′.

La Roma di D’Alessandria non è (quasi) più quella di Pasolini, ma l’occhio è lo stesso di “Accattone”. Come il regista friulano aveva superato il neorealismo, non limitandosi a descrivere la realtà italiana del periodo, ma conferendo ai baraccati e ai diseredati del periodo una voce propria, originale, così il regista de “L’imperatore di Roma” racconta i reietti dei nostri così (poco) lontani anni ’80. Si sarebbe tentati di dire che dietro la patina di futilità di quel tanto discusso decennio si aggira, come un fantasma, un memento mori camminante, lo scheletro da eroinomane di Gerry (interpretato da G. Sperandini, che fa se stesso), ma così non è. A questo film manca appunto, come un assente d’eccellenza, ogni retorica causale o giustificatoria.

In una civiltà in rovina, quella della Roma non più dei baraccati ma impiegatizia, ruffiana, eppure ancor più decadente, tra periferie, prostitute e tossici, è attraversata da questo biondo personaggio (che comparirà anche nel successivo film di D’Alessandria) della quale si autodefinisce imperatore, e contemporaneamente ci conduce lungo la sua personale via crucis: il rapporto con il padre, le difficoltà affrontate per procurarsi una dose, il ricovero in un ospedale psichiatrico. Non immune da alcuni momenti un po’ pedanti (il rapporto con il padre), resta però nella memoria per lucidità e per il personaggio interpretato da Sperandini, che commuove non senza infastidire, per il degrado a cui si abbandona.

A metà strada fra il documentario e il film di finzione, però virato attraverso un’ottica espressionista che quasi miracolosamente riesce a non risultare imposta, il film di D’Alessandria è anche un miracolo indipendente perchè totalmente autoprodotto. Testimone del suo tempo, è anche, naturalmente (e a volte troppo espressamente) parabola universale, vicino per modalità di realizzazione a certi documentari del decennio precedente come “Anna”, con il quale però non condivide una certa ottica retorica di fondo. Da vedere, assolutamente, anche come ultimo baluardo di un cinema che in Italia non esiste più, e anche al di fuori del nostro paese sta quasi scomparendo, grazie ad un sistema di grandi mezzi che si sta impadronendo anche delle piccole realtà autoprodotte.
Un film che si identifica contemporanemente sia con il suo protagonista che con il suo autore. Ebbi la fortuna di incontrare il regista pochi anni prima della sua scomparsa, ad un festival dove, non a caso, era presente anche il protagonista pasoliniano de “La ricotta”. Ricordo ancora che, rifiutando ogni logica distributiva, consegnava personalmente a mano ai vari festival che, coraggiosamente, decidevano di ospitarlo, le poche copie disponibili del suo lavoro.
Commovente, nella giusta misura in cui un film così ruvido, fastidioso e sincero, può smuovere certe corde che troppo spesso consideriamo atrofizzate. Può piacere o non piacere (e a chi non piace consiglio un sano esame di coscienza) ma assolutamente non da ignorare.
Stanotte venerdì 10 agosto ore 03:00 naturalmente su RaiTre.