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Mouchette: senza grazia e redenzione con il Bresson più crudo e sublime

L’acuto sguardo di Robert Bresson ci lascia cadere nel fiume con l’infanzia tradita e violata di Mouchette, nel mondo senza grazia e redenzione pronto a tornare al cinema restaurato

di cuttv
pubblicato 30 Aprile 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 12:11

A ‘crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio‘ e dritta all’inferno avrei preferito andarci in inverno, ma con la ballata di Fabrizio De André nella testa e l’animo trafitto dall’oblio della miseria umana di Robert Bresson, ci torno con la parabola di Mouchette e la missione pastorale del maestro francese che la lascia ‘chissà come‘ scivolare nel fiume, come l’altra vittima delle barbarie umane del cantautore italiano (Marinella).

Un cortocircuito della mie corde emotive, sfiorate ogni volta in modi imprevedibili dal regista francese più formalmente e moralmente ascetico, puro, essenziale e rigoroso.

Il Bresson di nuovo al cinema, nel mese che profuma di risvegli di primavera e virgulti del Festival di Cannes, con la versione restaurata di “Au hasard Balthazar” e il “Mouchette” che proprio alla 20ª edizione del Festival di Cannes ha strappato il Premio OCIC.

Due dei suoi sguardi più crudi e sublimi sul baratro che aspetta il mondo senza grazia e redenzione. Un «dittico» quasi inscindibile di ambienti, personaggi e struttura narrativa, spinto all’estremo e l’ineluttabilità del male, con il devastante disagio dell’anima di Mouchette, quasi combinando la sofferenza Marie e dell’asino Balthazar e anticipando le convulsioni disperate degli ultimi film di Bresson.

Quel rigore stilistico che rende la cinematografia di Bresson di difficile comprensione e grande fascino, contribuisce a tratteggiare il candore, la solitudine, la vergogna e la forza di uno dei suoi personaggi più limpidi, ribelli e tragici, ispirato ancora una volta da un romanzo di Bernanos.

Nel paesaggio rurale di Provenza, la giovane Mouchette di Nadine Nortier, selvaggiamente sgraziata e sola, è vessata e umiliata dallo squallore dell’umanità cinica e crudele, sprofondata nel liquore al ginepro.

Ubriaconi come il padre, contrabbandiere di alcolici con il fratello, la madre che agonizza nel letto con la bottiglia in mano, il curato, il bracconire epilettico Arsène e il guardacaccia Mathieu, entrambi innamorati della barista. Anche Mouchette riceve un bicchierino come salario all’osteria del villaggio, dove lavora la domenica per pagare quello che beve il padre.

Tra uccelli strangolati e conigli feriti che richiamano alla memoria lo spettro di Balthazar sin dalle prime sequenze, fiumi di alcol e violenza che la colpisce in ogni occasione, Mouchette, non più bambina e non ancora donna, risponde alle provocazioni con dispetti infantili. La vediamo sorridere solo sull’autoscontro o sguazzare di gioia nelle pozzanghere di fango.

La sua infanzia resta però negata e violata da tutti. Dalle percosse del padre e l’indolenza della madre che la costringe ad occuparsi anche del fratellino appena nato. Il neonato a cui tenta di scaldare il biberon portandoselo in petto, il fratellino che suo malgrado non gli permette di essere una quattordicenne come le altre.

La crudeltà dell’insegnante che schiaffeggia la ragazzina davanti ai compagni per una nota presa male, dei coetanei che la deridono, delle comari che ne sparlano, sono l’anticipo alla brutalità di un reietto come Arsène che, invocando la sua complicità la tratta da adulta, ma dopo averle strappato un barlume di speranza, la violenta, spegnendo ogni volontà di riscatto.

Al punto che, dopo aver trovato la madre morente, essersi ribellata alle maldicenze della gente e aver mentito ad un Mathieu creduto morto, con il vestito nuovo ricevuto in segno di un’inconsueta gentilezza, passando per il bosco, Mouchette ruzzola tra l’erba alta fino alla riva di un fiume, dove, quasi per gioco, o unico gesto di ribellione ad un mondo indifferente, si lascia cadere.

Un finale senza speranza che l’implacabile Magnificat di Claudio Monteverdi ammanta di “disperata” sacralità, tornando a chiudere il cerchio di nefandezze aperto prima dei titoli di testa del film e a dare l’unica risposta possibile alla domanda pronunciata dalla madre al cospetto di uno sguardo supremo, forse solo il nostro.

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Mouchette (Mouchette – Tutta la vita in una notte) (Francia-Svezia/1966) di Robert Bresson Interpreti: Nadine Nortier (Mouchette), Jean-Claude Guilbert (Arsène), Marie Cardinal (la madre), Paul Hébert (il padre), Jean Vimenet (Mathieu), Marie Susini (La moglie di Mathieu). Di nuovo in sala nella versione restaurata da Argos Films, con il sostegno del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée (CNC) presso L’Immagine Ritrovata, dal 2 maggio 2016, tutti i lunedì e martedì del mese.

[quote layout=”big” cite=”Bresson a 89 anni, cds 25.9.1996]«Nel cinema non bisogna preoccuparsi di fare belle immagini, ma immagini necessarie»
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Mouchette: curiosità

    Credo nella psicologia che nasce sullo schermo; per questo non prendo degli attori ma dei modelli vergini. Non è la psicologia che precede l’immagine a interessarmi, ma la psicologia che viene fuori indirettamente. Non parto mai dai problemi dell’anima; penso principalmente alla forma, che è nell’azione reciproca di immagini e suoni, tra suoni e suoni, tra immagini e immagini, effetto triplice, quadruplice […]. Io passo molto tempo al tavolo del montaggio, è un momento culminante molto stimolante e creativo. Non sono le inquadrature che devono essere drammatiche, ma l’insieme, e questo avviene al montaggio. Intervista di A. Tassone, in Il caso e la necessità, a cura di G. Spagnoletti e S. Toffetti, Torino, 1998

Alla lunga gestazione del Balthazar subentra la gestazione brevissima di Mouchette, girato col contributo della televisione – primo esempio di coproduzione televisiva in Francia – pochi mesi dopo Balthazar, con una rapidità inconsueta per Bresson.

    La Nouvelle histoire de Mouchette di Bernanos risale al 1937, l’anno successivo al Diario di un curato di campagna: con la “nuova storia” lo scrittore intende approfondire un personaggio già tratteggiato nella sua opera prima, Sotto il sole di Satana (1925), dandogli un maggiore spessore psicologico e assegnandogli un destino di morte che là era solo vagamente prefigurato. 
    Sergio Arecco, Robert Bresson. L’anima e la forma, Le Mani, Genova 1998

Sedici anni dopo “Il diario di un curato di campagna”, Bresson torna ad ispirarsi a Georges Bernanos, con il romanzo “La nuova storia di Mouchette” (1937) e il personaggio già ripreso da “Sotto il sole di Satana” (1926), portato al cinema da Maurice Pialat in un controverso film (1987) premiato a Cannes.

Mouchette non canta in coro, e per questo viene ripresa dall’insegnante; la canzone del coro palra di Cristoforo Colombo e della speranza, del continuare il cammino nonostante tutto. Mouchette la canterà più avanti nel film, da sola, nella notte davanti ad Arsène.

Nei titoli di testa e di coda, si odono frammenti da uno dei Magnificat di Claudio Monteverdi

Con analoga atonia e omofonia, il non-attore Jean-Claude Guilbert interpreta l’alcolizzato ed emarginato Arsène, come in “Balthazar” interpretava l’alcolizzato ed emarginato Arnold.

Il film è una produzione di Anatole Dauman per Argos Films / Parc Film.

Presentato alla 20ª edizione del Festival di Cannes, il film ha vinto il Premio OCIC (Gran Premio della giuria ecumenica), mentre alla 32ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il Premio Pasinetti e il Nastro d’Argento a Robert Bresson come Miglior Regista Straniero (ex-aequo con Peter Brook per Marat Sade).

“Vivere una vita sudicia e misera. Vedersi sola e violentata da adulti spietati. Suicidarsi a quattordici anni lasciandosi cadere in un fiume. Simulare, morendone, un gioco da bambina per dimenticare gli abusi e tornare pura. Mouchette è il personaggio più desolante del cinema di Bresson, nel suo film più terso, più limpido, più tragico.” Roy Menarini

Via | Il Cinema Ritrovato – Kinopoisk.ru

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