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I 10 migliori film del 2016 senza distribuzione in Italia

Ci siamo chiesti quali sono, tra i film che hanno debuttato nel 2016, quelli che vorremmo rivedere in sala ma che non hanno ancora una distribuzione nel nostro Paese. Il risultato è una lista di 10 titoli

pubblicato 13 Gennaio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 02:36

Le cose stanno così: il mese scorso mi sono chiesto quali film avrei voluto rivedere al più presto possibile tra quelli acciuffati ai vari Festival a cui ho avuto la grazia di partecipare nel corso dei precedenti dodici mesi. Tutto sommato con piacere mi sono reso conto, durante le mie ricerche, che una buona parte di questi erano già stati intercettati dalla nostra distribuzione e che presto o tardi arriveranno nelle nostre sale.

Tuttavia ne resta fuori ancora qualcuno, ed ho chiesto a Gabriele quali secondo lui sarebbe valsa la pena integrare. Da questa nostra corrispondenza nasce la lista che trovate di seguito: dieci film che al momento in cui scriviamo non hanno ancora una distribuzione nel nostro Paese. La sorte della maggior parte di questi è probabile che non cambierà nemmeno nei mesi a venire, nondimeno ci è parso opportuno segnalarli, sai mai. Chiaramente, oltre al titolo, vi spieghiamo brevemente pure perché stanno in questa lista. Buona lettura!

I 10 migliori film del 2016 senza distribuzione in Italia

Cameraperson: un documentario ‘di montaggio’ di outtake di opere a cui la regista ha preso parte in 25 anni di carriera. Un film che va oltre l’autobiografia: svela ciò che c’è tra i fotogrammi di opere già belle e montate; svela ricordi e momenti catturati dalla macchina da presa e dimenticati dal Cinema; svela intimamente un percorso di vita e una carriera professionale. Tra Dziga Vertov e Jonathan Caouette c’è Kirsten Johnson. (Gabriele)

L’Avenir: anziché soffermarsi su una sola generazione, stavolta, Mia Hansen-Løve intercetta una storia che ne coinvolge almeno due, finendo col celebrare la vita, a suo modo e senza particolari illusioni. L’approccio è onesto, realistico nella misura in cui sa essere verosimile, con una Isabelle Huppert che incarna a pieno quanto il suo personaggio ed il film stesso intendono trasmettere. (Antonio)

Dark Night: partendo dalla strage di Aurora, Colorado del 2012, quando un uomo sparò tra gli spettatori durante una proiezione di The Dark Knight Rises, Tim Sutton firma il film più potente dell’anno. Ma non è solo un j’accuse sulle armi e la violenza nella periferia americana. È un film sulla sala cinematografica come esperienza purissima. Pieno di visi, sonorità e idee che restano in testa e nel cuore. (Gabriele)

Crosscurrent: bisogna dare fiducia a quei cineasti che a loro volta ne ripongono in questo mezzo. Questa onirica traversata lungo il fiume Yangtze è ricca di un fascino misterioso, che non si misura con gli strumenti del racconto classico, sebbene per immagini. Certo, ci si deve anche un po’ voler perdere in quei paesaggi fotografati con significativa maestria, in questa storia con un piede nella realtà e l’altro chissà dove. Ad ogni buon conto, il risultato resta encomiabile. (Antonio)

Certain Women: Kelly Reichardt è semplicemente una delle migliori registe in circolazione. Tre storie con personaggi femminili diversi: una sempre fantastica Laura Dern, la sua musa Michelle Williams, l’ormai sempre eccellente Kristen Stewart. Ma a spiccare è Lily Gladstone, protagonista del segmento che strappa il cuore per davvero. Un ritratto gentile sullo sfondo tanto bello quanto crudele e solitario del Montana rurale. (Gabriele)

Le fils de Joseph: esempio di cinema più unico che raro, quello di Eugène Green spicca in virtù della sua eccentricità. In La Sapienza era l’Arte, qui il discorso, non meno alto, si collega addirittura alla Sacra Famiglia. Senza rinunciare a certe note ironiche, che collocano questo, come altri suoi film, al confine col surrealismo. Anche perché, correnti a parte, surreale l’ultimo lavoro di Green lo è proprio; se non lo fosse non ci aggancerebbe come invece riesce a fare. (Antonio)

Little Men: tra i grandi cantori contemporanei di New York City, Ira Sachs continua a descrivere la sua città, le sue persone, e i suoi problemi. È un coming-of-age in cui si vedono gli effetti della gentrificazione in atto a Brooklyn sulle persone che ci abitano: il risultato è pulito e giusto, serio e commovente. Un film sull’amicizia e sull’inevitabilità del crescere, dove il tempo passa e ci cambia, anche se non ce ne accorgiamo. (Gabriele)

American Honey: quando dallo speaker di un supermercato parte We Found Love di Rihanna cominciamo ad avvertire qualcosa, mentre alcuni adolescenti spiantati ballano senza curarsi di nient’altro. Il modo che Andrea Arnold, britannica, ha di raccontare questa specifica generazione americana riscalda proprio, riuscendo ad intercettare situazioni ed elementi che ai più sfuggono. A chi scrive sfuggivano di certo, mentre adesso ho un po’ più a cuore quanto sta avvenendo da quelle parti. (Antonio)

The Love Witch: la conferma di Anna Biller, regista indipendente che firma praticamente da sola un’opera che sprizza personalità e unicità da tutti i pori. Paragonata a Russ Meyer e ai B-movie di un tempo: ma la regista guarda soprattutto al Technicolor, ai film in 35mm (è anche girato così), a Hitchcock e Pasolini. Una parabola divertentissima sull’amore e sulla stregoneria, imbellita di dettagli visivi e sonori da leccarsi i baffi. (Gabriele)

La Mort de Louis XIV: l’ultimo di Albert Serra è Storia filtrata attraverso l’Arte in maniera oltremodo intelligente. La struggente e (perché no?) noiosa agonia di un Sovrano si fa metafora del Potere terreno dinanzi a quello, ben più inesorabile, della morte. Raffinati dipinti attraverso cui fluisce la commedia umana, in cui ci sta dentro di tutto: dalla tragedia alla cialtroneria, perché l’uomo è questo e tanto altro. Carnale, viscerale come tutti i lavori di Serra, per chi scrive questo è stato senz’altro il film del 2016. (Antonio)