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Gold – La grande truffa: recensione in anteprima

La romanzata parabola del cercatore d’oro Kenny Wells alle prese con la disillusione del sogno americano. Matthew McConaughey, sfatto per l’occasione, regge bene a dispetto di un ritratto sfrenatamente standard ed essenziale

pubblicato 29 Aprile 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 06:58

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Kenny Wells (Matthew McConaughey) non è sul lastrico. Di più. Il padre ha ereditato la propria fortuna scavando sul fianco di una montagna, in pratica operando in quel settore minerario che tante soddisfazioni e stabilità gli aveva dato. Nel 1988 però tutto questo non è che un lontano sogno: Kenny ha perso tutto, nessuno gli dà credito, e lui e la moglie Kaylene (Bryce Dallas Howard) tirano avanti con lo stipendio di quest’ultima, che fa la cameriera. Ma il cervello, quello no, a Kenny non ha mai stesso di girare; macinando idee, sogni soprattutto, che è un po’ ciò su cui poggia l’edificante trama di Gold – La grande truffa.

Il nostro decide di partire per l’Indonesia al fine d’incontrare lui, il geologo più gettonato del momento, Michael Acosta (Edgar Ramirez). Acosta è convinto che la giungla indonesiana celi un tesoro naturale prezioso, ossia un giacimento d’oro che nessuno ha ancora scoperto; contro di lui il mondo, a partire dalla comunità di cercatori, i quali reputano il geologo un pazzo. Ma ehi, Wells non gode di maggior stima e poi non ha niente da perdere: incapace di farsi allungare fossero pure pochi spiccioli per imprese marginali, Kenny promette a Mike di trovare il modo di finanziare questa follia. Qui nasce una nuova amicizia, qui prosegue un sogno.

Stephen Gaghan non ci gira attorno, infatti il suo Gold vive su e dell’onda del sogno americano, la sua transitorietà, il suo essere sfuggente, per certi versi traditore, quantunque affascinante, ricco di suggestioni. Tesi che informa a dire il vero prepotentemente la scrittura dunque la struttura di un film che a marce forzate ci porta da una scena madre all’altra senza preoccuparsi più di tanto di spianare loro la strada nel modo opportuno. Ciò poiché si ha la fretta di arrivare alla frase ad effetto, al momento di svolta, anche se il tutto ci tocca più per quanto filtra mediante certa retorica che a seguito di una costruzione ponderata. Quando Kenny per esempio dice «se vendi i tuoi sogni, cosa ti rimane?», manifesta senz’altro una verità che riguarda un po’ tutti, ciascuno a proprio modo, solo che, quando arriva, a tale affermazione tocca poggiarsi su un terreno poco coltivato, facendo quasi in toto affidamento sulla potenza in sé di quanto evocano certe affermazioni.

È un limite non da poco, che peraltro porta il film a incorrere in quel problema che proprio il suo protagonista evoca quando è il momento di dare una strigliata ai guru di Wall Street: «voi non vi siete mai sporcati le mani, non le avete mai affondate nella terra», recita più o meno l’immancabile ripassata. Ed è così anche per prodotti come questo, ennesimo parto della bottega Weinstein, che confeziona un film pulitino, impeccabile, per raccontare una storia per forza di cose molto più sporca. E non è che non affondi le mani in quella “sporcizia” perché ne abbia scorno, no; semplicemente sa che pochissimi vorrebbero accostarsi alla complessità di certe dinamiche, foss’anche col solo, sacrosanto intento di essere intrattenuti. Qui invece la portata della storia, le sue implicazioni, certe spregevoli pieghe, vengono appena carezzate, dunque semplificate.

Si badi bene, quanto appena evidenziato opera su due livelli: in termini contenutistici, la semplificazione interviene in relazione al racconto, che asciugato fino a questo punto rende pressoché inefficaci certi momenti, i quali perciò finiscono con l’essere isolati, picchi di un cardiogramma per lo più piatto; di conseguenza è il discorso in sé a risentirne, non riuscendo a conciliare a pieno la forza narrativa di questa vicenda con l’intento di renderla accessibile. Un probabile indizio sta per esempio nell’ennesima, interessante trasformazione di McConaughey, appesantito e greve con la specifica dell’uomo del Sud, il cui immaginario è interpretato talmente bene dall’attore da esserne quasi diventato il prototipo hollywoodiano.

Non solo. La parabola ascendente e discendente di Wells, vista dalla nostra prospettiva, gode senz’altro dei suoi momenti, ma è l’estemporaneo finale, risolto con una seppur incisiva inquadratura, ad essere ancora una volta chiamato a metterci realmente una pezza. Insomma, Gold racconta una storia come ne sono stata trattate svariate, il cui arco produttivo non l’ha certo favorito, dato che l’idea risale alla crisi del 2008 (poco importa che si stia ancora facendo i conti con quel fenomeno lì), con un piglio da format, quale di fatto è il film. Una copia, frutto di calcoli, pesi, a tutto svantaggio dell’anima di questa parabola, entro una certa qual misura finanche troppo didattica, vizietto al quale da quelle parti si cede ben volentieri, anche quando non sembrano esserci i presupposti per poterlo fare. Che malgrado tutto ciò le peripezie di Kenny sopravvivano la dice lunga, nondimeno, su quanto colgano nel segno gli eventi in cui è incappato; anche se fa sempre un po’ sorridere quando a farsi carico della loro trasmissione sia l’industria dorata. Quella di oggi.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Gold – La grande truffa (Gold, USA, 2016) di Stephen Gaghan. Con Matthew McConaughey, Edgar Ramirez, Bryce Dallas Howard, Macon Blair, Adam LeFevre, Frank Wood, Corey Stoll, Toby Kebbell, Joshua Harto, Timothy Simons, Michael Landes, Rachael Taylor, Bruce Greenwood, Stacy Keach, Bill Camp, Dylan Kenin e Kristen Rakes. Nelle nostre sale da giovedì 4 maggio 2017.