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Venezia 2017: voti e considerazioni conclusive

Festival di Venezia 2017: virtual reality, Leone d’Oro a Hollywood ed altre linee guida per leggere l’edizione numero 74 della Mostra del Cinema di Venezia

pubblicato 11 Settembre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 02:19

E un’altra Mostra se ne va. Una di quelle che andrebbero ricordate, anche se poi è arduo prevedere se accadrà o meno. Chi scrive non ha condiviso da subito la febbre collettiva per The Shape of Water, trovandola eccessiva a dispetto di un film che è pur sempre opera di un maestro (per la cronaca, lo sbertucciato Crimson Peak, meno piacione ed effettivamente più discontinuo, continuo a preferirlo all’ultimo lavoro di del Toro). Verrebbe da dirsi tuttavia soddisfatti perché questo Leone d’Oro va ad un film americano, se vogliamo infrangendo un tabù sempre più consolidato; senonché Venezia non è Cannes ed il direttore Barbera, a quanto pare, non s’immischia negli affari della Giuria come invece si dica faccia Fremaux, quindi siamo dinanzi ad uno di quei casi in cui una rondine non fa primavera.

Certo, la Mostra agli americani “doveva” qualcosa in termini di riscontro in ottica Palmarés, ma questa è più una percezione che riguarda certe major, sempre meno inclini a spostarsi dall’altra parte del mondo quando hanno Toronto dietro casa: «e se non ci rimedio manco un premio, chi me lo fa fare?», sembrano dire. Questo malgrado film d’apertura che poi hanno fatto sfaceli agli Oscar successivi, sull’asse Gravity-Birdman-La La Land. Il film d’apertura, ecco: che peccato Downsizing. Una partenza col botto, una delle idee più fresche degli ultimi anni, vanificate da una virata scialba che lo vanifica in toto; a ‘sto giro neanche la presenza al Lido potrà essere di buon auspicio per la notte più patinata di tutte.

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Uno non vorrebbe star lì ad attardarsi troppo sui premi, ché è prerogativa dei giurati scegliere in base a ciò che più hanno gradito. Tuttavia qualche riflessione s’impone. Chi c’ha seguito avrà senz’altro notato quali sono stati i film secondo noi più significativi di questa Mostra. Faccio due nomi: Kechiche e Schrader. Se film come Mektoub, My Love: Canto Uno e First Reformed non li premi ad un Festival non so davvero dove altro dovrebbe andare per ottenere i riconoscimenti che meritano. Qualcuno dirà che cineasti di quel calibro non ne hanno bisogno… ma allora, ché per caso del Toro ne ha “bisogno”? La verità, più che altro, è che non saranno piaciuti, perché se almeno a due giurati un film colpisce non si può poi far finta che non esistano quando tocca tirare le somme. E quanto sarebbe stato bello almeno il Leone d’Argento per la Regia a Schrader, proprio per il messaggio che dopo decenni avrebbe veicolato…

Cionondimeno, si tratta di due film meravigliosi, ciascuno a proprio modo. Mektoub fa venir voglia di chiudersi dentro a una cella criogenica per poi svegliarsi quando anche il Canto Tre sarà disponibile; First Reformed inatteso proprio, almeno da questa parte: film rigorosissimo, che Schrader con ogni probabilità culla da decenni, dato che c’è tutto quello che lo ha nutrito come cineasta o semplice innamorato della Settima Arte. Un’ode al cinema che perciò ha amato, con quel trio non da poco su cui scrisse un libro, ossia Bresson, Ozu e Dreyer.

Sempre in ottica premiazione, sventato il “pericolo” Cina. Oggi ci ridiamo un po’ su, ma in futuro andrà ricordato che ci fu un tempo, giorni, in cui il nome il solo evocare cose come Human Flow rischiò d’inquinare l’atmosfera di generale serenità e soddisfazione di quei giorni. Qualunque premio ad Ai Weiwei sarebbe stato inopportuno e fuori luogo: farcelo vedere è stato più che sufficiente. Né purtroppo l’altra cinese, Vivian Qu, con il suo Angels wear white, ha saputo dire la sua; si temeva un Mastroianni, se non altro per la delicata tematica, alla quale però corrisponde una conduzione troppo didascalica, ai confini dell’impegno magari giustamente indignato, classico film che trovi a Berlino in sezioni collaterali come Forum. Ben più accettabile dell’altro connazionale, ma anche qui un cordiale «no grazie».

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Capitolo Italia. Quando si parla di italiani a Venezia, ahimè, si tende spesso ad avere ragione; tuttavia però non leggo quasi mai di titoli come Per amor vostro, in Concorso due edizioni fa, che invece è un gran bel film. Negli ultimi due anni però tocca dirlo: quanta inadeguatezza. Viene quasi da rimpiangere i tempi di Controcampo italiano, escamotage triste, offensivo quasi, ma efficace per ritagliare uno spazio entro il quale i nostri film potessero sguazzare senza preoccuparsi d’altro. Una famiglia di gran lunga il peggiore, imbarazzante, sensazione acuita dalla sproporzione tra la tematica e la mano pesantona con cui Riso la maneggia. Virzì fa il classico film dello straniero negli USA, commedia ammiccante ma essenzialmente vuota, il che è strano se si guarda al tema (due anziani che decidono di sfuggire alla routine mettendosi in viaggio con il loro camper) nonché ai due comunque impeccabili protagonisti. Ammore e malavita è stata una scommessa vinta malgrado il film stesso, che è l’ennesima, instabile parodia della parodia dei Manetti Bros.: l’intuizione dei selezionatori denota apertura, oltre che un sano intento provocatorio. Non è la mia tazza di tè ma mi lascio volentieri sfiorare dalla provocazione. Pallaoro l’unico dal quale si scorge un bagliore, sebbene il suo Hannah sia sin troppo «rough», come dicono i critici stranieri che contano; quantomeno vi è un’idea ben precisa di cinema, che non si può fare a meno di rispettare.

Due righe val la pena spenderle pure su un’altra tematica, ossia quella inerente a quei film che in fin dei conti hanno giustificato l’esserci a questo Festival, l’averne insomma preso parte. E, manco a dirlo, si tratta di film che per lo più sono stati odiati, non capiti, in certi casi addirittura a priori. Tutto nasce da una domanda: se vado ad un Festival, che tipo di film voglio vedere? A questa domanda personalmente rispondo che intendo assistere a cose che non ho mai visto né pensato di vedere, qualcosa che m’inquieti, mi spinga a mettermi in discussione come spettatore, che allarghi anche solo di mezzo centimetro le mie facoltà, anche laddove non esca pazzo per ciò che ho appena visto. In tal senso i film che hanno dato un senso a questa Mostra, dunque, sono tre: mother! in Concorso, Les garçons sauvages in Settimana della Critica e Caniba in Orizzonti.

Tre film stranissimi, respingenti, ma che alzano l’asticella tirandosi praticamente fuori da qualsivoglia contesa. Il film di Aronofsky è di quelli che si ama odiare, per ambizione mista a presunzione, eppure c’è tanto cinema, tanta libertà (alcuni direbbero «pure troppa!») e basterebbe misurarsi con la reazione alla prima stampa per capire che è il film che ci vuole: fischi e applausi dopo una settimana di accoglienze sonnecchianti, una reazione degna di questo nome, specie tra chi si è detto addirittura arrabbiato. Ben venga, purché un segnale di vita ci sia! E con mother! c’è stato eccome, come con nessun altro. Les garçons sauvages è un’opera prima mirabolante, sopra le righe dall’inizio alla fine, fatta per esploratori, come in fondo lo sono le sue protagoniste. Caniba ha invece il merito di approntare implicitamente un discorso molto serio ed urgente sullo statuto di visione: fin dove è giusto vedere? E perché? In un periodo in cui è tornato di moda invocare la censura, sebbene per motivi diametralmente opposti rispetto all’ultima volta che lo si faceva con altrettanto furore, è fondamentale porsi quesiti del genere. Senza contare che ci troviamo ad un punto in cui sembra si sia visto tutto o quasi, perciò cos’altro fare, quale altro vaso di Pandora scoperchiare? Coraggioso da parte della Giuria di Amelio conferirgli un premio.

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Ultimo ma non meno importante, il discoro inerente alla Virtual Reality. Lo dicemmo all’inizio: nessuna iniziativa è più felice di questa. Che la Mostra di Venezia sia la prima ad esporsi su questo fronte è ammirevole ed in futuro si guarderà a questa edizione come ad una di quelle pionieristiche. Per chi non c’è stato, sappia che per una settimana un battello ha traghettato gente dal XX al XXI secolo in due minuti circa, facendo continuamente spola tra Lido ed Isola del Lazzaretto. Quanto ai premi, Arden’s Wake è un gioiellino niente male, senza dubbio tra le migliori cose viste, mentre La camera insabbiata di Laurie Anderson avremmo voluto testarlo di più. Altra cosa notevole è stata per esempio Dispatch, anche se avremmo voluto farci un giro su altre installazioni di cui si è tanto parlato ma che, malgrado le sette ore passate al Lazzaretto, ci sono state precluse. Era il primo anno: confidiamo in una migliore gestione l’anno prossimo. Il punto è che la VR pare davvero essere qui per restare e, malgrado non sia ancora possibile incasellarla in un ambito specifico, probabilmente il suo futuro non sta né tra le mura del Cinema né tra quelle del Videogioco. È qualcosa di diverso, di affascinante e terribile in egual misura, che ha però tutte le carte in regola per imporsi come medium per eccellenza dei decenni che abbiamo davanti.

Lungi da me la presunzione di aver fornito un’esaustivo resoconto di quello che è stata la Mostra di Venezia numero 74, queste sono le chiavi di lettura che nei giorni precedenti hanno continuato a balenarmi nella mente con insistenza. Realtà virtuale, premi a sorpresa, opere che non hanno da essere «belle» (sic) o da piacere in senso stretto per uscirne quali le più esemplificative circa possibili nuovi approcci. Potremmo aggiungere che il livello del Concorso è stato forse il più alto da qualche anno a questa parte, superiore agli altri due maggiori Festival europei di quest’anno (Cannes e Berlino), ma la cosa rileverebbe fino a un certo punto. È su altri fronti che questa Mostra si è dimostrata all’altezza, una cosa seria, e fin qui ho provato a compendiarne il perché. Adesso sì, ecco i voti a tutti i film visti.

Concorso

Madre! (Mother!), di Darren Aronofsky – 8
Suburbicon, di George Clooney – 5
The Shape of Water, di Guillermo del Toro – 6.5
L’insulte, di Ziad Doueiri – 8
La villa, di Robert Guédiguian – 7.5
Lean on Pete, di Andrew Haigh – 9
Mektoub, My Love: Canto Uno, di Abdellatif Kechiche – 10
The Third Murder (Sandome No Satsujin), di Kore’eda Hirokazu – 6.5
Jusqu’à la gard, di Xavier Legrand – 5
Ammore e malavita, di Manetti Bros. – 4
Foxtrot, di Samuel Maoz – 8
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri), di Martin McDonagh – 8
Hannah, di Andrea Pallaoro – 6
Downsizing, di Alexander Payne (Stati Uniti d’America) – Film d’apertura – 5
Angels wear white (Jia Nian Hua), di Vivian Qu – 5
Una famiglia, di Sebastiano Riso – 2
First Reformed, di Paul Schrader – 9
Sweet Country, di Warwick Thornthon – 7
Ella & John (The Leisure Seeker), di Paolo Virzì – 5
Human Flow, di Ai Weiwei – 2
Ex Libris – The New York Public Library, di Frederick Wiseman – 8

Fuori Concorso

Vittoria e Abdul (Victoria & Abdul), di Stephen Frears – 5
Outrage Coda, di Takeshi Kitano – 7
Loving Pablo, di Fernando León de Aranoa – 4
Zama, di Lucrecia Martel – 8
Le fidèle, di Michaël R. Roskam – 5
The Private Life of a Modern Woman, di James Toback – 5
Brawl in Cell Block 99, regia di S. Craig Zahler – 7
Manhunt, di John Woo – 3

Documentari

Piazza Vittorio, di Abel Ferrara – 7
This Is Congo, di Daniel McCabe – 7
Ryuichi Sakamoto: Coda, di Stephen Nomura Schible – 7
Jim & Andy: The Great Beyond. The Story of Jim Carrey, Andy Kaufman and Tony Clifton, di Chris Smith – 6

Orizzonti

Caniba, di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel – 7
Les Bienheureux, di Sofia Djama – 7.5
Brutti e cattivi, di Cosimo Gomez – 4
La nuit où j’ai nagé (Oyogisugita Yoru), di Damien Manivelle e Igarashi Kohei – 6.5
Gatta Cenerentola, di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone – 7

Settimana Internazionale della Critica

Les garçons sauvages, di Bertrand Mandico – 8

Biennale College

Beautiful Things, di Giorgio Ferrero – 8