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Serenity – L’Isola dell’Inganno, recensione – il grande rischio di Steven Knight

Un film che mette più carne al fuoco di quella che può gestire, Steven Knight lavora sui codici per dar vita ad una miscela instabile, pregna di suggestioni ma proposta in maniera spiazzante, senza però conferire spessore a certa esuberanza

pubblicato 15 Luglio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 18:12

Baker Dill (Matthew McConaughey) campa portando in giro clienti sulla sua barca, di cui lui è chiaramente capitano. Il suo mondo, su cui si consuma la sua ossessione: catturare Justice, un tonno gigante con cui ha un conto in sospeso. Non passa giorno, tra una sbronza e l’altra, in cui Dill non ci provi, o quantomeno ci pensi. Una routine logorante ma con cui sia il capitano che la sparuta popolazione dell’isola in cui vive si sono oramai abituati; finché, in quella calma, quella stasi, il tempo, fino a poco prima pressoché immobile, non subisce un’improvvisa accelerata. A propiziarla è l’ex-moglie di Dill, Karen (Anne Hathaway), che ha una proposta: uccidere il suo compagno, Frank (Jason Clarke), la cui violenza rischia di mettere a repentaglio sia la vita di Karen che quella del figlio che ebbero quando stavano insieme. In ballo ben 10 milioni di dollari.

Cos’abbia fatto qui Steven Knight è davvero difficile a spiegarsi. Certo è che il coefficiente di complessità, alla luce della premessa, è davvero alto, oltre ad essere tali presupposti a loro modo un’attenuante. Attenuante di cosa? Ma di un risultato così francamente spiazzante, frutto di un film costellato di momenti così sopra le righe, quasi mai in senso positivo. Serenity è un gioco, e lo è in un duplice senso che per forza di cose si comprende solo a seguito della visione; il primo, più immediato, è che questo è il nome della barca di Dill, culla dell’ossessione di quest’ultimo, che nella caccia infinita alla preda Justice trova non tanto una ragione di vita ma un suo surrogato. Del secondo non si può invece manco far cenno, pena il rovinare la sorpresa.

Sotto c’è di più, molto di più. Knight, immagino, avrebbe anche voluto dire questo, ossia che in un’esistenza apparentemente scriptata c’è il senso di un trascinarsi il quale, per quanto estenuante, rappresenta in larga parte l’unica possibilità che abbiamo. Letta così, questo suo lavoro celerebbe anche un briciolo di cinismo, quel rimando all’impossibilità di sfuggire alla gabbia dentro la quale ciascuno di noi, volente o nolente, si trova. Tali considerazioni potrebbero apparire un’aggiunta al testo, qualcosa che non trova corrispondenza rispetto a quanto Serenity mette sul piatto; per questo, nel caso, si consiglia caldamente di tornare a visione ultimata. Purtroppo, o per fortuna, questo è uno di quegli esempi in cui l’allusione infatti non basta: dovremmo svelare troppo, in maniera maldestra peraltro, vanificando una delle componenti essenziali del film, che sta proprio nell’attesa di quel twist che fa esclamare «che cosa sta succedendo?!».

Dove infatti Serenity mostra delle crepe vistose, a tal punto da confondere quasi, sta proprio in una prima ora da modesto noir, insapore, incolore, persino nelle interpretazioni quasi parodistiche di McConaughey e della Hathaway, che sembrano scimmiottare lo sceneggiato televisivo in maniera nondimeno calcolata, cercata. Una chiara indicazione di Knight perciò? Chi può dirlo? Senonché si è inclini a crederlo proprio alla luce di quell’estemporaneo stravolgimento che fa capolino a seconda metà inoltrata del film, quando il cortocircuito fra thriller, noir e fantascienza travolge tutto e tutti, imponendosi come una valanga. Anche qui, nulla d’involontario, non voluto.

E dire che il Knight regista intercetta due/tre elementi opportuni, ancorché queste indovinate intuizioni non fanno che acuire quel senso di straniamento dal quale è difficile ricavare se si tratti di una sensazione piacevole o fine a sé stessa. Il mood è infatti quello posticcio da vacanza perenne, scorci suggestivi a far da contorno ad un contesto claustrofobico già prima che il capovolgimento di fronte prenda definitivamente corpo; un contrasto a cui Knight, almeno sulla carta, lavora con cognizione di causa, sfidando, se vogliamo, quell’idea da cartolina di una location paradisiaca solo appunto finché la si vede da lontano, in foto.

Cinico anche in questo, per certi versi, anche se in tal senso l’invettiva non dispiace. Uno scenario così perfetto, conciliante, sole, spiaggia e mare, pare dirci Knight, è solo una delle tante costruzioni, un regno inesistente a cui aspirare e verso cui convogliare le proprie forze, le proprie aspirazioni, per distrarre da una realtà che, al contrario, è di gran lunga più spietata, più grigia. Non a caso Serenity ne avrebbe di cose da dire su questo segmento di Storia, il nostro, in cui il confine tra realtà e finzione non è più esterno a chi fa esperienza di entrambe le dimensioni, o per meglio dire, esclusivamente indotto da fuori: ora è il singolo vittima e carnefice al tempo stesso delle proprie illusioni, alle quali, a differenza di prima, vuole consegnarsi con tutto sé stesso.

Una sorta di fuga mundi in versione secolo XXI, non più rivolta al cielo ma ripiegata sul qui e ora, senza alcun orizzonte se non quello di fuggire la tragedia che è l’esistenza, rispetto alla quale non si scorgono più i contorni da commedia che questa comunque presenta. Ma è tutto in potenza, un film che pretende di essere letto al di là dei suoi limiti, non importa fino a che punto connaturati, addirittura spacciati per virtù. La virtù, semmai, sta nell’aver osato, in quel tentativo a tratti stravagante di dare vita a un discorso che però non attecchisce mai davvero. Uno di quei film su cui insomma è più facile discutere a posteriori, costituendo questo senz’altro un vago merito, anche se per riuscirci si ritrova ad attirare l’attenzione tramite il suo essere bislacco.

Certo, anche quest’ultima annotazione la si potrebbe annoverare tra le ragioni inerenti alla necessità di soffermarsi su certi argomenti e riuscirci utilizzando ogni mezzo a disposizione, anche a costo di fare leva proprio su quel sintomo che è dato dal fenomeno descritto da Knight, ossia l’alienazione, il farsi vivere per scelta in luogo dello sforzarsi di vivere nonostante tutto e tutto. Ma, come di nuovo si evince da queste righe, è più un ragionamento al quale si perviene inoltrandosi nella foresta dei possibili significati, delle possibili implicazioni, lungo il sentiero di un’intellettualizzazione che in fondo il film rifugge, proprio perché vorrebbe arrivare a certe cose per altre vie, più immediate sebbene meno elaborate. Mescolando i codici, e in questo modo prendendosi dei rischi non da poco.

Serenity è un progetto palesemente concepito per essere questa cosa qui dunque, ossia un film che, in modo forse anche troppo consapevole, intende porsi al di là. Oltre quel forse necessario ancorché troppo spesso pallido buon senso. L’idea di Knight è probabilmente stata questa: se devo sacrificare tutto ciò al fine di generare quel briciolo di “scandalo” di cui forse lo spettatore ha bisogno, e sia. Dietro al film ci sono due idee, ma è il modo in cui vengono legate che crea il vero corto circuito di cui a qualche capoverso sopra. Il pubblico anestetizzato dei multiplex non resterà illeso dalla scossa, alcuni sbarellando in positivo, altri uscendone talmente contrariati da non voler avere più niente a che fare con un oggetto del genere. Resta da capire quanto si sia disposti a parteggiare per un’operazione così interessante forse proprio perché consiste in un esito così volutamente mediocre. E se non si tratta di cult, di certo ci somiglia davvero tanto.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]

Serenity – L’Isola dell’Inganno (Serenity, USA, 2019) di Steven Knight. Con Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Djimon Hounsou, Diane Lane, Jason Clarke, Jeremy Strong, Rafael Sayegh, Charlotte Butler, Kenneth Fok, Robert Hobbs, Garion Dowds ed Edeen Bhugeloo. Nelle nostre sale da giovedì 18 luglio 2019.