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Stasera in tv: “Nome di donna” su Rai 1

Rai 3 stasera propone “Nome di donna”, film drammatico del 2018 interpretato da Cristiana Capotondi, Valerio Binasco, Michela Cescon e Bebo Storti.

25 Novembre 2020 08:15

Cast e personaggi

Cristiana Capotondi: Nina
Valerio Binasco: Marco Maria Torri
Adriana Asti: Ines
Stefano Scandaletti: Luca
Michela Cescon: avvocato Tina Della Rovere
Bebo Storti: don Roberto Ferrari
Laura Marinoni: avvocato Arabella Rossi
Anita Kravos: Alina
Renato Sarti: don Gino
Vanessa Scalera: Sonia Talenti

La trama

Nina (Cristiana Capotondi) si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia, dove trova lavoro in una residenza per anziani facoltosi. Un mondo elegante, quasi fiabesco. Che cela però un segreto scomodo e torbido. Quando Nina lo scoprirà, sarà costretta a misurarsi con le sue colleghe, italiane e straniere, per affrontare il dirigente della struttura, Marco Maria Torri (Valerio Binasco) in un’appassionata battaglia per far valere i suoi diritti e la sua dignità.

Note della sceneggiatrice Cristiana Mainardi

Un esercito anonimo di milioni di donne che non deve più essere invisibile Nome di donna è nato tre anni fa dal desiderio di guardare alla condizione femminile nel mondo del lavoro, escludendo le discriminazioni più macroscopiche -come la disparità salariale -per studiare invece quelle più sottili –e dunque subdole –assunte come una sorta di (sotto)cultura diffusa. Quel senso comune, quell’ovvietà, capace di insinuarsi nel quotidiano, di diventare parte integrante del modo di vivere e di lavorare, di rapportarsi agli altri.Credo che ogni donna possa comprendere esattamente queste parole, e –per fortuna –anche molti uomini.

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Mi sembrava importante uscire dai massimi sistemi, dalle ideologie, dai ragionamenti teorici, ed entrare invece nella vita di tutti i giorni, nelle storie di una quotidianità femminile straordinariamente complessa, figlia di questo tempo in cui la fragilità economica e la precarietà del lavoro hanno inevitabilmente alzato il livello del bisogno e abbassato quello delle pretese. O meglio: dei diritti.

Un’indagine Istat svolta nel 2008/2009 ha accertato che in Italia circa la metà delle donne, in un arco di vita compreso fra i 14 e i 65 anni, ha subito ricatti sessuali sul lavoro o molestie in senso lato. In numeri: 10 milioni e 485mila donne.Un numero migliorato nel nuovo rapporto 2015/2016 (8 milioni e 816mila donne), che invece conferma che quasi un milione e mezzo di donne ha subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro.

Al di là della freddezza delle statistiche, è stato come vedere e sentire un esercito immenso -e tuttavia anonimo e silenzioso -sostenere un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, di decennio in decennio, una battaglia che non avrebbe dovuto essere combattuta mai e che non si dovrebbe combattere ancora adesso:solo perché si è donne. In nome del diritto al lavoro e in difesa della propria dignità.

Un’altra suggestione è stata dettata da un fatto realmente accaduto negli anni Novanta quando in Italia si accese il dibattito che poi portò –nel 1996, solo vent’anni fa! –a considerare lo stupro reato contro la persona e non più reato contro la morale. Una normativa in cui fu inserito anche il tema delle molestie sessuali, ma con un difetto importante, che sarebbe bene rimediare al più presto: chi decide di denunciare ha soltanto 6 mesi di tempo per farlo.

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Il rapporto Istat evidenzia che, nonostante la legge abbia più di vent’anni, le molestie sessuali sui luoghi di lavoro restano un fenomeno di proporzioni enormi, a fronte del quale solo una sparuta minoranza sceglie di reagire. I fatti degli ultimi mesi hanno dimostrato quanto sia difficile –difficilissimo –uscire dal silenzio ed esporsi al giudizio del senso comune e quanto sia difficile affidarsi a una società che culturalmente deve ancora fissare i suoi punti di riferimento.

Con “Nome di donna”, ho cercato di dare vita a un personaggio che potesse uscire da quell’esercito relegato nel limbo del silenzio e di raccontare una storia che restituisse almeno in parte la complessità e il dolore rappresentato dalla molestia anche quando si agisce la volontà di affrontarla anziché subirla. La volontà di non sottostare all’abuso di potere. Di non accettare il ruolo di vittima predestinata. Di ribellarsi.

Con “Nome di Donna”  cercato di rappresentare diversi gradi di sensibilità femminile, ognuna incarnata in un personaggio con modi diversi di affrontare –o rimuovere –il problema, consapevole che la percezione di questo tipo di abuso dipende da molti fattori che concorrono a formare una personale soglia di tolleranza. Ho cercato di evitare il metro del giudizio per percorrere la strada della comprensione, mi sono tenuta vicina ogni donna, anche quelle più integrate nel sistema che subiscono, e proprio per questa ragione le più deboli. Ho cercato con loro una condivisione.

Scrivendo di Nina, non ho potuto fare a meno di chiedermi che cosa avrei fatto al suo posto, già sapendo che non avrei avuto lo stesso coraggio, soprattutto la stessa capacità di sopportarela solitudine –l’isolamento –a cui condanna la decisione di ribellarsi. Mi auguro che questa storia, pur non tacendo del prezzo alto che comporta ogni ammutinamento alle cattive regole, possa alimentare la speranza che le cose non restino così per sempre.