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Max Ophüls, molto più di un esteta

Oggi, nel 1906, nasceva in Germania uno dei maestri indiscussi della Settima Arte. Ricordiamo Max Ophüls

pubblicato 6 Maggio 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 11:24

[quote layout=”big” cite=”Max Ophüls]La macchina da presa esiste per creare una nuova arte e mostrare anzitutto ciò che non può essere visto altrove: né in teatro, né nella vita; diversamente non ne avrei bisogno; la fotografia non m’interessa. Quella la lascio al fotografo.[/quote]

Accostarsi a Max Ophüls fa venire le vertigini. Davvero, si rischia di dire cose inesatte, confondere fischi per fiaschi. Ma ricordarlo, approfittare di una data al solo scopo di rievocarne l’opera, per quanto in maniera appena accennata, è dovere che chiunque abbia un minimo a cuore la Settima Arte sente certamente.

Noi qui cogliamo l’occasione della sua nascita, che risale al 6 maggio del 1902, a Saarbrücken, in Germania. Maximillian Oppenheimer, questo il suo vero nome, negli anni ’30 si trasferisce a Vienna, soggiorno durato poco per via dell’ascesa di Hitler nella sua terra natia, ma che a ben vedere l’ha segnato – quantunque quella Vienna non fosse il più il centro del mondo che era stato a cavallo tra l’800 e il ‘900.

Conobbe il successo e il fallimento, lui che voleva a tutti i costi assaporare la dolcezza di Hollywood, il suo porsi quale epicentro di questa giovane Arte, sperimentando però sulla propria pelle tanto la volubilità quanto l’incertezza dell’industria dorata. Quando arrivò, nel 1941, faticò a collocarsi a dispetto dei dieci film all’attivo, e fu solo l’intervento di Robert Siodmak e Preston Sturges che a dargli quella spinta che gli consentì di girare il suo primo film (Vendetta, 1946).

Frainteso, disatteso, fu Truffaut uno tra quelli che vollero sfatare il mito dell’Ophüls esteta, campione di virtuosismi (va da sé, intesi come inutili): ogni suo movimento di macchina era a servizio dell’attore. Da qui se ne ricava il senso di certi pianosequenza, tesi sempre ad amplificare la portata della performance, la sua fisicità, sebbene si voleva senz’altro al contempo glorificare la bellezza di tale fisicità, questo sì. Precisazione importante per un regista che venerava il movimento, su cui era imperniato il suo modo di raccontare, esempio tutt’ora insuperato di una dinamicità visiva corroborante. Nel suo ultimo, controverso film, Lola Montès (1955), lascito per certi versi ideale di tutto il suo cinema, non è un caso se la protagonista dice «La vita per me è… un movimento»; e se lo è la vita, figurarsi il cinema, che tale definizione c’è l’ha nel nome/DNA.

Fra i vari film che si potrebbero ricordare qui, vorrei menzionarne uno su tutti; un titolo a cui chi scrive non solo è particolarmente affezionato, ma lo reputa persino uno dei più grandi film di sempre, ossia Le plaisir (1953). Vale la pena soffermarvisi tuttavia soprattutto nell’ottica dell’emblema, epitome di un’intera filmografia, che qui raggiunge vette che tolgono il fiato – Bertolucci ebbe a dire che la prima volta che lo vide gli salì la febbre. In quel ballo all’inizio, la prima delle tre meravigliose storie di cui consta il film, non c’è però solo Ophüls: c’è il cinema e c’è la vita. Tre dimensioni rispetto alle quali Le plaisir si pone quale sineddoche, la parte per il tutto. L’irrompere dell’uomo mascherato a cui inizialmente non si dà troppa importanza, salvo poi scoprire, di lì a poco, che è il protagonista del segmento; le donne di casa Tellier nel secondo episodio, venato di una grazia unica, con quell’accento religioso che sfonda ogni barriera; ed infine il tormentato rapporto tra un artista e la sua modella, che potrebbe persino essere il prologo del primo episodio: «c’est la vie, mon amour. Vieillesse e saumon. Jeunesse e sardines».

Le donne, dunque, centrali in tutta l’opera ophulsiana. Certo, con la sensibilità di oggi, oltre che per via della scarsa propensione generale ad accettare approcci diversi, tanto più se riconducibili ad altre epoche, la gestione della figura femminile in Ophüls è particolare, non di rado le sue donne sottomesse, subalterne addirittura, come però in fin dei conti in certi contesti erano. Ad alcuni potrebbe contrariare il romanticismo al quale il regista ha quasi sempre fatto ricorso per filtrare i suoi racconti, se per l’appunto unito a questa visione della donna, della sua condizione: dalle prostitute di Le Plaisir e Yoshiwara, Il quartiere delle geishe, alle donne sopra le righe del summenzionato Lola Montès e La signora di tutti. C’era forse in Ophüls anche questo desiderio di avvicinarsi alla donna nel concreto di situazioni particolari, per certi versi estreme, non tanto per ricavarne una o più idee definite e definitive, bensì per trarne quel briciolo di universalità rispetto ad un cosmo, quello femminile, su cui comunque, lui ancora attivo e operativo, non si diceva granché e, relativamente a quel po’, non si era sinceri fino in fondo.

Ma l’importanza di Ophüls sta anche nel suo essere stato tra i pochi ad aver trascinato sullo schermo il proprio passato, quell’inclinazione al fin-de-siecle viennese che diventa, forse suo malgrado, testimonianza, proprio in un periodo in cui il Cinema sta diventando reperto, documento, fermo restando la massima di Roger Ebert, per cui la Storia, in senso stretto, va letta sui libri. Basti qui rievocare la malinconica battuta che si sente in La ronde (1950): «Adoro il passato: è molto più tranquillo del presente e molto più certo del futuro». Affermazione scontata, ma che, nella sua estrema semplicità, ci restituisce più di quello che ci offre la sua apparente ingenuità. Teniamoci perciò una delle lezioni più essenziali di questo grande regista, che risiede nell’aver plasticamente (di)mostrato una delle prerogative pregnanti del cinema, cosa significasse insomma su uno schermo la bellezza del movimento, nonché il movimento della bellezza.