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Annecy 2020, True North, recensione, come resistere alla disumanità

Eiji Han Shimizu cerca di trasmettere un bagliore in mezzo all’orrore di un campo di prigionia, apparendo disorientato nel racconto

pubblicato 16 Giugno 2020 aggiornato 29 Luglio 2020 10:32

Sul palco del TED un giovane si appresta a tenere il suo discorso in meno di venti minuti. Dopo pochi istanti scopriamo che il ragazzo è originario della Corea del Nord e che quella che sta per raccontare è la storia della sua famiglia, non un’analisi politica. True North nondimeno, inutile negarlo, è di per sé un titolo che una connotazione politica ce l’ha, e non senza ragioni: un Paese di cui sappiamo poco, intendo su ciò che realmente significhi viverci, consapevolezza inficiata non soltanto dal fatto, banale, che noi occidentali non ci viviamo, bensì dall’estrema difficoltà, quasi sempre impossibilità, di sapere cosa realmente accada da quelle parti.

Il film è diretto da Eiji Han Shimizu, giapponese d’origine, il quale, oltre che essere un cineasta è anzitutto un educatore, spero di non fargli un torto definendolo anche un motivatore. Uno che il suo TED l’ha avuto, ed il cui documentario Happy è stato il numero uno su iTunes a suo tempo. Perché queste precisazioni? Perché ci agevola a contestualizzare se non altro i limiti del progetto, specie in rapporto alle implicazioni tematiche, alla loro importanza.

Shimizu opta infatti per uno stile diretto, sia a livello narrativo che visivo, faticando a tenere a freno tale impeto votato ad un’asciuttezza che restituisca nella maniera più chiara possibile l’orrore del racconto. Racconto che parla di una famiglia trascinata in un campo di lavoro per dissidenti e traditori, definizioni che, in un contesto del genere può significare tutto e niente, dato che i criteri sono del tutto aleatori, a totale discrezione di membri del Partito quasi sempre troppo zelanti.

Ai primi dieci minuti di una Pyongyang di metà anni ’90 tutto sommato vivibile, viene sin da subito opposto il clima da regime opprimente: persone che debbono radunarsi di nascosto per decidere sul da farsi, che pressoché in ogni caso non può che tradursi in una fuga; militari che monitorano la qualsiasi; un ordine per le strade che genera un senso notevole d’inquietudine. Ma è di lì a poco che veniamo a contatto con la realtà del film, quella appunto di un campo in cui, manco a dirlo, le condizioni sono disumane. Shimizu in pratica si appropria dei canoni dell’horror, e lo fa da subito, quando i nuovi prigionieri, tra cui la famiglia del protagonista, vengono quasi presi d’assalto da degli uomini che somigliano in tutto e per tutto a degli zombie.

È un refrain che ritorna, quella della zombieficazione dei “residenti” di questo campo di prigionia, un resoconto che, per il resto, si uniforma in tutto e per tutto ai canoni di un genere nel genere, oramai stantii, dunque inadatti a tratteggiare scenari così estremi. Shimizu si limita ad aggiungere qua e là qualche elemento di comprensibile ancorché discutibile crudezza; non perché, s’intenda, disturbi assistere a scene violente, ma perché questi passaggi rappresentano impennate estemporanee che tendono a voler incidere da sé, a funzionare a prescindere dal contesto entro il quale vengono calate.

Per cercare di rendere un po’ meglio il concetto, si pensi a quanto László Nemes ha fatto per questa categoria con Il figlio di Saul, disancorando i film a tema olocausto da un format che col tempo stava perdendo vigore, proprio per via di formule che non venivano rinnovate. Ed invece, proprio la portata sempre attuale di quanto certe storie contengono impone un seppur minimo lavorio d’attualizzazione, non tanto in relazione alla verità storica, quanto ai modi la Storia, appunto, viene trasmessa. Insomma, la medesima vicenda non possiamo raccontarcela sempre allo stesso modo, a meno che non si voglia incappare nella pessima eventualità per cui, nel consegnare una certa storia ad una platea così come si è fatto fino a un certo punto, non si dia agio a chi guarda di equivocare certi modi datati, se non altro perché abusati, con il venire meno della profondità, là dove non della veridicità, del contenuto di queste storie.

Mi pare che Shimizu, mosso dalla seppur ammirabile intenzione di fare luce non solo sulle condizioni di una specifica area del mondo, ma su quanto certo grado di disumanità sia ahimè alla portata di qualunque ambiente, ebbene, al netto di tutto ciò, l’impressione è che ci si sia lasciati trascinare più del dovuto. Che insomma, l’intento didattico abbia preso il sopravvento, deriva che a parere di chi scrive s’ha sempre da evitare, sia perché rischia di rivelarsi controproducente, sia perché denota scarso convincimento circa talune prerogative inerenti tanto alla sfera artistica quanto a quelle dell’intrattenimento.

Sotto altri aspetti, non si rimane certo sordi al grido di dolore, a quell’incitamento verso una libertà che non va mai data per scontata, anzi, mai così fragile come quando si crede di averla conseguita una volta per tutte. In questo senso True North, che si focalizza su un argomento specifico, relativo ad un Paese che è quello non un altro, qualcosa, sebbene en passant, la dice. Resta la denuncia, la giusta indignazione, che però nemmeno la computer grafica riesce del tutto a sublimare. Ed è forse questo ciò che convince meno nel lavoro di Shimizu, ossia un certo disorientamento nel gestire toni e registri, senza attingere a pieno dalle possibilità dell’animazione, troppo compresse e soverchiate da una realtà così fagocitante.