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Venezia 2020, Notturno, recensione del film di Gianfranco Rosi

Rosi torna alla Mostra a sette anni dal Leone d’Oro per Sacro GRA, con un documentario girato in Medioriente

pubblicato 9 Settembre 2020 aggiornato 1 Settembre 2021 09:03

In lontananza si sentono colpi di mitragliatore; lontani sì, ma continui. Ed incombenti. Cosa scrivere di un film come Notturno? Diciamo intanto che Gianfranco Rosi offre probabilmente le immagini più belle da Sacro GRA a questa parte: belle da vedere, per composizione, colori, prima ancora che per le suggestioni che evoca. Eppure questo è anche il suo documentario più duro da vedere, figurarsi da digerire.

Tre anni ai confini di Siria, Kurdistan, Libano e Iraq, quel Medioriente falcidiato da guerre che sembrano non finire mai, come se per questi posti fosse la condizione naturale. Popoli antichi, regioni con una Storia incredibile, da decenni teatro di fame, miseria, distruzione e perciò morte. La prima sensazione – perché sì, non si può fare a meno di rispondere, di reagire a Notturno anzitutto di pancia – è quella d’impotenza. Una frustrazione che monta scena dopo scena, è che ha forse il suo culmine nel passaggio in cui la macchina da presa di Rosi si sofferma su questa classi di ragazzini in età da elementari e medie, incamerando le loro storie.

Tutte terribili, qualcosa con cui nessuno, figurarsi un bambino, dovrebbe mai confrontarsi. L’apice lo si raggiunge quando questa particolare scolaresca appende al muro alcuni disegni; dopodiché uno di loro comincia a raccontare come i terroristi che lo hanno tenuto prigioniero mutilavano, torturavano e uccidevano gli yazidi. Con parole semplici, quelle di un bambino, che non piange, non si dispera, ci vengono riferite situazioni che a vederle, temo, non avrebbero attecchito allo stesso modo, impressionandoci di meno. Come se stesse raccontando una gita in famiglia, balbettando, il piccolo scorre i disegni, anche quelli disegnati da altri, e rievoca certi momenti come se oramai fossero entrati a far parte della sua normalità.

È questo che devasta: l’aver trasformato nel tempo una situazione così estrema in qualcosa di ordinario, lo status quo di un’intera regione. Non so quali fossero le intenzioni di Rosi, né dirò che non questo non conti, perché conta sempre, specie a fronte d’immagini e storie così forti, “vere”; quel che però va detto è che non emergono rivendicazioni o prese di posizione in generale, o almeno, chi scrive non ne coglie. D’altronde non sta a Rosi, né allo spettatore stabilire chi abbia torto e chi ragione, senza contare che, come diceva Roger Ebert, probabilmente è proprio vero che la Storia va appresa sui libri e non al Cinema.

Ciò che però ci mostra Notturno grida vendetta al cospetto della Giustizia. Non si tratta di essere enfatici per il gusto di prodursi in forme d’indignazione. Il focus di Notturno non è sui gruppi, né sulle motivazioni di questi conflitti infiniti, sebbene le ragioni alla base di questo stato di cose non siano secondarie, ci mancherebbe. Quel che più rileva, in questo caso, sono le persone, è tentare, anche solo per un’oretta e mezza, comodamente adagiati su una poltrona, con l’impaccio tutt’al più (dato il periodo infame) di una mascherina, d’immedesimarsi in questa gente che vive tra le rovine di più civiltà credendo di non avere più speranza.

Mi rendo conto che certe uscite suonino naif; tuttavia non è tanto l’apprendere certe atrocità, vedere, seppur sommariamente, quale impatto stiano avendo, come le persone del luogo vivano una quotidianità del genere. Per non parlare dello sguardo, del fatto che, qualunque cosa ci viene messa davanti è frutto di una selezione, in loco e successiva, in sala di montaggio. No, quello che rimesta lo stomaco e lascia interdetti, per dire il meno, è che contesti del genere appartengono alla nostra epoca. Sappiamo che la nostra non è la migliore delle ere, salvo ovviamente non avere un approccio quantomeno ingenuo, per non dire infantile, all’esistenza; non è che quindi colpisce che vi siano disparità così abissali di per sé. È dover venire a patti con una realtà tremenda, che, se siamo almeno un po’ onesti, tocca riconoscere, ossia che non è pensabile neanche alla lontana che un tale livello di disumanità resti a lungo vincolato ad una o più aree, comunque ristrette, del mondo. Specie se al problema contribuisce, non sta a noi dire in che misura, chi si trova e opera in quella parte del mondo dove regna la “pace”.

Notturno (Italia, 2020), di Gianfranco Rosi. Nelle nostre sale da mercoledì 9 settembre 2020.

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