Home Curiosità Cosa vuol dire Cinema Internazionale? I Film che dettano ancora le mode: Le Iene

Cosa vuol dire Cinema Internazionale? I Film che dettano ancora le mode: Le Iene

Un editoriale di Italo Moscati con un pizzico di storia del cinema

pubblicato 28 Giugno 2012 aggiornato 1 Agosto 2020 00:21

Stimolato da un breve ma inconcludente dibattito in tv, vorrei tornare sul tema del grande cinema non come nostalgia ma come storia da rivalutare. Specie quando si parla di un cinema internazionale. Hollywood rischia di essere eclissata da Bollywood; nessuno più parla di Cinecittà come una Hollywood sul Tevere, né degli studi di Pinewood a Londra, delI’ex Ufa a Berlino o della Mosfilm di Mosca (oggi inesistente). I film arrivano alla spicciolata anche in Italia da tante parti del mondo e non creano un punto di riferimento preciso. Neanche la potente Cina ha un cinema in grado di essere egemone. E allora?

Allora bisogna tornare alla Hollywood del sogno americano. Un sogni che nasce da lontano (la nostra Europa neanche è incinta di futuro), in e con una nuova terra promessa, gli Stati Uniti d’America: il Vecchio Mondo dell’Europa cominciò a scoprirla dopo la Guerra di Indipendenza Americana (1776) che sconfisse i colonialisti olandesi, britannici francesi e spagnoli. Erano passati quasi trecento anni, per l’esattezza duecento ottantaquattro, dal viaggio di Cristoforo Colombo, primo “emigrante”, 1492.

Gli Stati Uniti Americani cambiarono la storia, e ciò pochi anni prima della Rivoluzione Francese (1789). Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1787) e la costituzione in cui è specificato il diritto di tutti alla felicità, la nuova terra promessa cominciò a richiamare gli europei (inglesi, tedeschi, olandesi, italiani, francesi) e in seguito gli emigrati asiatici (cinesi, giapponesi, indiani) e latino americani (messicani, brasiliani, cileni, argentini).

CHARLIE-CHAPLIN

Luccicava nella terra promessa il sogno americano di trovare lavoro, libertà, benessere, fortuna: dentro e fuori di essa gli stessi americani cercavano di materializzare un loro sogno di guadagni e avventura, lanciandosi nella ricerca di giacimenti nella corsa all’oro di metà ottocento. La necessità, la povertà, la voglia di lasciare in vari continenti e paesi situazioni arretrate, politicamente, economicamente, gettarono rapidamente le basi di una grande aspettativa che creò a lungo un altrettanto grande leggenda capace di risolvere dolorosi problemi, drammi, sofferenze, e quindi non astratte, illusorie, speranze.

La letteratura e poi dai primi del Novecento il cinema muto e dal 1928 sonoro, s’incaricarono di diffondere non solo nel Vecchio Mondo, l’idea che esistevano buone probabilità per rendere possibile un sicuro riscatto da miseria e disagio a portata di mano, concreto, reale. Prospettive e non miraggi, avvalorati da esodi di massa sollecitati, programmati, verso la Statua della Libertà, nel porto di New York, “porta” d’America. Verso uno sviluppo tumultuoso industriale, agricolo, artigianale complessivo che aveva bisogno di braccia ma anche e soprattutto di cervelli.

Un’immagine emblematica della attesa spasmodica, della fiducia stimolata dalla fama non usurpata dell’America come di una promessa vera, è quella di Charlie Chaplin nel film Charlot emigrante (1917) in cui il grande artista, nei panni di un emigrante con bombetta, in mezzo ad altri emigranti, guarda la famosa Statua con gli occhi del desiderio e del sogno che diventa tangibile, seducente visione di libertà e scommessa sul domani.

Un secolo dopo il regista italiano Giuseppe Tornatore ripropone la stessa scena con gli occhi di una moltitudine di italiani che si affollano sul ponte della nave su cui si sono imbarcati per il film La leggenda del pianista sull’oceano (1998) per specchiarsi nella famosa Statua.

Tra i due film, il cinema ha continuato a presentare le pellicole sul tema e sui personaggi noti o sconosciuti che hanno descritto la leggenda, una vera e propria epopea con i colori dell’entusiasmo e però anche del dolore. Dolore per lo sradicamento dalla propria terra; per paura dell’ignoto, della difficoltà dei rapporti, della lingua e della comunicazione.
Una lunga odissea. Con sogni ad occhi aperti. In Italia tornavano negli anni dopo la seconda guerra mondiale (dal 1945 in poi) gli “zii d’America” che venivano filmati dai cinegiornali dell’epoca. Essi erano mostrati mentre partecipavano alla festa popolare in cui i borghi, le campagne, i paesi, festeggiavano l’inaugurazione di un allacciamento elettrico, di un servizio comunale pubblico, di una biblioteca, iniziative rese possibili dal finanziamento di questi “zii” che avevano avuto fortuna.

Erano storie vissute nel sogno duraturo della realtà americana, multiculturale, nella quale si integravano genti diverse. Un sogno venato peraltro di incubi avvertiti da molti che erano partiti senza sapere o sapendo poco di quel che li aspettava. Incubi raccontati da sensibili osservatori – ad esempio antropologi come Ernesto De Martino – che descrivevano i disagi delle lunghe traversate in navi strapiene, dei contatti con dimensioni di vita sconosciute; le reazioni di razzismo violento di cui furono vittime tanti italiani; il rigore di punizioni giudiziarie che portarono alla condanna a morte nel 1927 i sindacalisti Sacco e Vanzetti, accusati di rapina a mano armata e omicidio, incolpevoli, come anni dopo verrà raccontato dai giornali, dal cinema e poi dalle tv.

Incubi per le attività criminali di bande di gangster in lotta tra loro nel periodo del proibizionismo. Bande di varia origine: irlandese, italiana, cinese. Incubi per le morti sul lavoro che si verificavano in ambienti industriali senza regole di sicurezza e per varie forme di sfruttamento. Incubi o richiami bruschi alla realtà che non si dissolvevano nelle epiche dello sport popolare: ad esempio, nel baseball e soprattutto nella boxe. In un film documentario di Alessandro Blasetti, Storie dell’emigrazione (1972), il regista intervistò alcuni pugili italiani che erano stati campioni del mondo, tra questi c’era Jack La Motta (a cui Martin Scorsese, italoamericano di seconda generazione ha dedicato film Toro Scatenato, 1980). La Motta ricordava: ”Mio padre mi disse che era andato in America perché gli avevano detto che le strade era lastricate d’oro, poi scoprì che le doveva asfaltare lui”.

Fatiche e imprese straordinarie. Come quella di Amadeo Pietro Giannini, ex venditore ambulante, che fondò la Bank of America e finanziò attraverso di essa gran parte della attività industriali in California, compresi gli studi di Hollywood. Il sogno americano aveva molte facce e tuttavia continua ad essere ricordato come un racconto solo in parte immaginario perché, grazie ad esso, lo sviluppo degli Stati Uniti è andato avanti a lungo, e va ancora avanti, come va avanti la tradizione democratica coltivata fin dalle origine, contro i colonizzatori e nella Guerra di Secessione (quella raccontata tra l’altro dal romanzo e dal film “Via col vento”) contro gli Stati del Sud che pretendevano la continuità delle schiavismo e del razzismo, il triste fenomeno che si è perpetuata a lungo per via della attività delittuose del Ku Klux Klan.

Il sogno americano attrasse anche i garibaldini italiani smobilitati dall’esercito piemontese all’indomani dell’Unità d’Italia del 1861. Subito dopo il presidente Abramo Lincoln chiese a Garibaldi di combattere insieme con i Nordisti contro l’esercito sudista; l’Eroe dei Due Mondi scrisse una lettera toccante: rispose che era stanco, malato. Andarono i garibaldini. Li abbiamo visti senza camicia rossa, nelle divise blu di tanti film che ci ostiniamo a chiamare western.
Il sogno americano ispirò al regista Frank Capra, di origine siciliana, i film…, storie di democratici e di democrazie, storie ingenue ma sincere, realizzate negli anni della crisi del 1929 e alla vigilia della guerra contro nazismo e fascismo. Storie che hanno inciso nella storia. E il sogno si stempera col tempo ma non si cancella nel ricordo e nei fatti da ricordare.

Il sogno americano cercò sempre, nella sua vicenda che continua anche se la leggenda è in ombra, ogni possibile risorsa per perpetuarsi. Ha pescato nella pubblicità: l’Italia del miracolo economico, anni Cinquanta- Sessanta, ne fu invasa, come dimostrò il successo travolgente degli elettrodomestici- dalla lavatrice all’aspirapolvere- che ebbe nella televisione, i suoi primi telefilm, un veicolo impetuoso. Le famiglie ne furono letteralmente conquistate e ci fu un mutamento radicale nelle abitudini domestiche. Un’altra pesca fu, anch’essa tenace e malleabile, nella musica, soprattutto nelle canzoni pop e nei ritmi rock.

Esemplare la famiglia di emigrati italiani in La febbre del sabato sera (1977) con John Travolta. Con la musica per i giovani, che gli anziani conserveranno come memoria insieme a film e tv, il grande sogno si è fatto più piccolo ma funziona bene, anzi benissimo con internet, i new media e i suoi guru. Un sogno che passa tra la crisi del ruolo degli Stati Uniti negli scenari di guerra nel mondo, nella crisi delle banche e della finanza. Che sfiora incubi pericolosi e comunque ancora c’è dietro le nuvole; e cerca nuovi eroi come Steve Jobs e nuovi talenti e forme di fascinazione non disgiunta da una pratica utilità. Noi, il cinema italiano, il cinema europeo sonnecchiano, e si attaccano alle smunte tasche senza euro dei governi.

Il sogno americano è sfumato, come dimostrano film come Le Iene e tutti quelli realizzati di Quentin Tarantino, idolo dei cinefili, a cui non importano le trasparenze (origini, estrazioni, lingue, tradizioni) ma sono attenti alle forme dei linguaggi, il cinema li fa propri e li comunica al mondo, e conferma la tradizione di Hollywood: diventare un modello per il mondo e tutti gli spettatori. Il ritorno delle Iene è esemplare: piace e marca una differenza, è diventato un punto e a capo. Nei nuovi capoversi i piccoli e grandi film della globalizzazione che vengono dal Medio Oriente e dall’Asia.

Foto Charlie Chaplin: TMNews