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Stonewall di Roland Emmerich: Recensione in Anteprima

Annunciato film ‘di una vita’, Stonewall di Roland Emmerich è invece un clamoroso tonfo.

pubblicato 4 Maggio 2016 aggiornato 28 Agosto 2020 11:53

Sette anni dopo l’acclamato e pluripremiato Milk e due anni dopo l’acclamato e pluripremiato Pride, il cinema torna ad incrociare i diritti glbtq con Stonewall, criticato e sbertucciato ritorno in sala di Roland Emmerich. 60 anni all’anagrafe e un curriculum costellato di catastrofici kolossal di successo, da Stargate a Independence Day passando per Godzilla, 2012, The Day After Tomorrow e l’imminente Independence Day – Rigenerazione, Emmerich non è soltanto uno dei registi europei più ‘inglobati’ dall’industria hollywoodiana, ma anche uno dei pochi dichiaratamente omosessuali.

Va da se’ che questo progetto, da lui cullato per oltre un decennio e arrivato al cinema dopo due anni di lavoro, una produzione in proprio e il compenso più basso possibile previsto dalla Director’s Guild of America, fosse particolarmente atteso e al tempo stesso temuto. Escluso il curioso ma probabilmente sottovalutato Anonymous, thriller storico centrato sulla controversia dell’attribuzione delle opere di Shakespeare, Emmerich non aveva infatti mai realizzato nulla di simile, essendo da sempre tanto concentrato su fantascienza ed effetti speciali, rischiando automaticamente di andare incontro ad un clamoroso buco nell’acqua. E così è stato.

Costato poco meno di 15 milioni di dollari, girato interamente a Montreal con Christopher Street ricostruita di sana pianta e boicottato dai movimenti glbtq d’America, a causa delle immotivate imprecisione storiche e delle discutibili scelte di casting e di scrittura, Stonewall ha incassato la miseria di 187,674 dollari in patria, trasformando il film di una vita di Emmerich nel suo più rumoroso e doloroso flop.

La sera del 28 giugno del 1969, in una Grande Mela assediata dal caldo asfissiante, in lutto per la morte di Judy Garland ed esausta dall’intolleranza, dalle discriminazioni e dalla violenza delle forze dell’ordine ai danni degli omosessuali della città, considerati malati, bisognosi di cure e illegali in ogni forma, un mattone cambiò la storia. Dinanzi all’ennesima retata, portata avanti in quel caso dalla buoncostume a caccia del mafioso proprietario dello Stonewall Inn, migliaia di gay inferociti si ribellarono improvvisamente, e inaspettatamente, dando letteralmente il via al movimento per i diritti degli omosessuali. Gay, lesbiche, drag queen e transessuali scatenarono l’inferno per 4 notti consecutive, finendo sulle prime pagine di tutti i giornali d’America e su tutti i telegiornali nazionali. Un anno dopo, per commemorare quell’epocale notte, a New York sfilò il primo storico Gay Pride.

47 anni dopo, con il matrimonio egualitario che è diventato legale in tutti gli Stati Uniti d’America, era probabilmente doveroso omaggiare anche al cinema quei moti, già sbarcati in sala nel 1995 con il titolo di Nigel Finch. Emmerich, ed è qui che la pellicola deraglia completamente, ha invece preso quei moti e intitolato il film per poi concentrare quasi tutte le proprie attenzioni sulla vita di un adolescente inventato di sana pianta. Perchè lo Stonewall Inn, con i suoi freak all’interno e le divise dell’intolleranza all’esterno, rimane quasi in disparte, lungo i 130 minuti. Una cornice per confezionare l’esistenza di Danny Winters, giovane in arrivo a New York da una piccola e bigotta cittadina dell’Indiana perché cacciato di casa. In quanto omosessuale. Piovuto dal cielo, educato, timido, innamorato del suo migliore amico / amante segreto che l’ha tradito pur di salvarsi la faccia e senza un soldo, Danny non è altro che uno dei tanti giovani homeless omosessuali della Grande Mela. Ancora oggi, dati reali, rappresentano il 40% del totale. Ed è qui, senza alloggio ne’ denaro, che Danny viene accolto dalle marchette che gravitano attorno allo Stonewall Inn, storico locale nel Village.

Ingredienti accettabili, per romanzare il giusto e provare ad ampliare l’omofoba e chiusa visione dell’America di un tempo, soprattutto in provincia, automaticamente limitati dall’abuso di un Emmerich che tutto, o quasi, fa ruotare attorno al fascinoso Danny di Jeremy Irvine. L’intera struttura poggia sulla sua rapida e surreale ‘conversione’, da innocente ragazzino a rivoluzionario in poche settimane, mentre vicino a lui gravitano personaggi il più delle volte inventati, e quasi a senso unico nel mostrare solo un colore di quell’arcobaleno riottoso che alimentò i moti. Il colore bianco. Dove sono le transessuali (Silvia Rivera), dove sono le drag queen che sfidarono i poliziotti armati fino ai denti l’una sottobraccio all’altra, dove sono i ripetuti abusi quotidiani da parte delle forze dell’ordine, dov’è quello spirito di rivolta che in tutti gli States, tra Vietnam, neri e femministe stava montando e soprattutto dove sono i moti, che durarono 4 notti eppure qui rimangono quasi ai ‘margini’ grazie ad un’unica scena di guerriglia. Incapace di gestire i toni, in perenne bilico tra melodramma spinto, dramma storico e decontestualizzati pizzichi di ironia, Emmerich sbanda persino dinanzi al genere da intraprendere, seminando gratuiti momenti di tensione ‘mafiosa’ con tanto di rapimento e tracce romantiche che mai finiranno per coinvolgere emotivamente lo spettatore, già di suo tediato dai dialoghi di Jon Robin Baitz, dall’abbagliante fotografia di Markus Förderer e dalla stucchevole colonna sonora di Rob Simonsen.

Irvine, scoperto e lanciato da Steven Spielberg con War Horse, è neanche a dirlo in balia di un personaggio poco credibile nella sua evoluzione, con Jonny Beauchamp negli abiti dell’eccentrico e sforunato Ray, sorta di mix tra Ray Castro e la Rivera, Jonathan Rhys-Meyers in quelli del maturo e politicante Trevor Nichols e Ron Perlman, mitico Hellboy, nei panni di Ed Murphy, mafioso gay che gestiva lo Stonewall Inn con modalità brutali, approfittandosi dei giovani e aitanti senzatetto che bazzicavano il locale. Marsha P. Johnson, drag queen nera nonché regina delle regine della vera Stonewall, illumina lo schermo ogni qualvolta Roland si ricorda della sua presenza, essendo esageratamente (e inspiegabilmente) impegnato a delineare i contorni d’amore del dolce Danny, incredibilmente tramutato nella ‘miccia’ che diede il via ai moti.

Film d’apertura della 31a edizione del TGLFF – Torino Gay & Lesbian Film Festival, Stonewall si potrebbe definire esageratamente ‘commerciale’ e a tratti revisionista in ambito glbtq, avendo preso un pezzo di storia d’America per trasformarlo ‘in altro’, privandola gratuitamente di aneddoti reali e impreziosendola con eventi mai accaduti, riuscendo così nell’impresa tutt’altro che semplice di far infuriare gli omosessuali e lasciare probabilmente indifferenti (o non del tutto ‘istruiti’ a riguardo) quegli eterosessuali che nulla sapevano di questa memorabile ‘battaglia’ per i diritti. Nel complesso, una grande occasione sfumata.

[rating title=”Voto di Federico” value=”4.5″ layout=”left”]

Stonewall (Usa, drammatico, 2016) di Roland Emmerich; con Jeremy Irvine, Jonny Beauchamp, Joey King, Caleb Landry Jones, Jonathan Rhys-Meyers, Ron Perlman, Matt Craven, Atticus Mitchell, David Cubitt, Karl Glusman, Andrea Frankle, Otoja Abit, Mark Camacho – uscita giovedì 5 maggio 2016.