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Manifesto: recensione del film con Cate Blanchett

Film-saggio nato come installazione artistica che tocca un nervo scoperto della contemporaneità, in un periodo di transizione delicato. Manifesto recupera i movimenti artistici più significativi del ‘900 e li cala nella quotidianità di oggi attraverso tredici tipi di Cate Blanchett

pubblicato 10 Ottobre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 01:09

Cos’è un Manifesto? A cavallo tra l’installazione artistica ed il film-saggio, l’artista di origini bavaresi Julian Rosefeldt ci dà in pasto quest’opera provocazione, se così possiamo dirla. L’accostamento al cinema non è poi così tangenziale, dato che si tratta al contempo di una prova d’attrice notevole per Cate Blanchett, che si cala in ben tredici personaggi per dar ragione circa questo cangiante approfondimento di Rosefeldt. La struttura è semplice: ciascun personaggio, ripescato dalla quotidianità, si fa portatore delle istanze di un movimento, o per meglio dire, di un manifesto.

Tredici segmenti che ripercorrono sostanzialmente il ‘900, perché è stato questo il secolo che li ha prodotti per poi ucciderli nella culla; tutti diversi, non di rado stravaganti, mossi dalla convinzione che la (ri)nascita dell’uomo nuovo consistesse anzitutto in una presa di coscienza artistica, perciò politica – prima che in merito alle affinità tra le due discipline si scrivessero fiumi di stupidaggini o semplicemente venisse trasmesso un malevolo seppur giustificato pregiudizio al solo udire tale accostamento.

La nostra è un’epoca intollerante come poche ve ne sono state, un’intolleranza che, prima ancora che scagliarsi contro le persone, ha avuto in scorno ideali, principi et similia. Come spiegare infatti ad un giovane contemporaneo che vi fu un tempo in cui il messaggio era a fondamento di un’opera artistica, pena non aversi affatto tale opera? Incalzato com’è da quest’ansia di non cedere a ciò che vuole dire qualcosa, che rimanda a qualcos’altro. Eppure dovrebbe dirci qualcosa che, specie le generazioni più anziane, così come i meno “acculturati”, cerchino spesso un appiglio, un elemento forte che connoti un’opera in un senso o nell’altro. I movimenti artistici andavano verso tale direzione, consapevolmente o meno, ossia dotarsi di linee guida ispiratrici che dettassero ogni cosa; vennero meno, forse, per certi loro risvolti dogmatici, carattere che ha contraddistinto i secoli passati e da cui ci si voleva smarcare ma evidentemente senza troppa convinzione.

Interessanti gli accostamenti proposti da Rosefeldt, che al Situazionismo appioppa un senzatetto, affidandogli peraltro il compito di aprire e chiudere questa sua carrellata concettuale. In generale però si tratta di corto circuiti che forse non vale nemmeno troppo la pena sondare: meglio prenderli così per come sono, sorridendo anche, perché l’approccio in fin dei conti non è nemmeno poi così serioso come l’incipit lascia intendere. Operazione intelligente già a partire dal primo di questi corto circuiti, ossia l’intuizione di affidare tutto nelle mani di un’attrice riconoscibile, oltre che famosa proprio per questa sua capacità di cambiare pelle, trasformarsi nei personaggi più disparati con discreta verosimiglianza.

Qui, poi, la perfomance prevede un grado di complessità per certi versi più accentuato. Ogni personaggio è infatti sì preso dalla vita di tutti i giorni, sia esso un punk, un operaio, un broker, un giornalista televisivo, un’insegnate, una coreografa e via discorrendo; solo che, mentre da un lato le viene chiesto di atteggiarsi in maniera credibile rispetto al ruolo, allineandosi a modi e atteggiamenti, dall’altro è chiamata a recitare la parte dell’esponente di un manifesto, recitando quelle che possono essere considerate delle vere e proprie poesie. Questo sovrapporsi tra improvvisazione e l’attenersi scrupolosamente ad un testo genera quella sensazione al limite col surreale che, come già accennato, se in un certo qual modo fa sorridere, al contempo fa pure riflettere.

La domanda perciò diventa: c’è spazio oggi per dei nuovi manifesti? Perché, va da sé, che ve ne sarebbe bisogno pare essere pacifico. Il divertente contrasto tra la quotidianità e gli enunciati, quasi una barzelletta se si pensa quanto la prima paia impermeabile ai secondi, dà adito ad un discorso che sistematicamente viene rinviato, non tanto perché qualcuno s’impegni ad ostracizzarlo bensì poiché spontaneamente scoraggiato. Ci s’immagina infatti questi tredici personaggi ridestarsi tutt’un tratto dal torpore, come se fossero stati posseduti da quelle anime che tornano a tormentarci per finire ciò che hanno a stento potuto cominciare, per poi tornare di buon grado alle rispettive esistenze, molto più distaccate, disilluse laddove non banali. Ma anche questo non si può dire, perché l’epoca nostra bandisce a priori certi luoghi comuni, perciò le persone “ordinarie” non sono né eroi né vittime, né individui né massa. Ma allora cosa sono? Ha un che di artistico già sollevare certi quesiti, in questo modo ed in un ambiente così indifferente all’essenziale.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”7″ layout=”left”]

Manifesto (Australia/Germania, 2015) di Julian Rosefeldt. Con Cate Blanchett, Erika Bauer, Carl Dietrich, Marie Borkowski Foedrowitz, Ea-Ja Kim, Marina Michael, Hannelore Ohlendorf ed Ottokar Sachse. Nelle nostre sale da lunedì 23 ottobre 2017.