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Cloud Atlas: Recensione in Anteprima

I fratelli Wachowski tornano in sala con l’ambizioso Cloud Atlas. Cineblog lo recensisce in anteprima

pubblicato 8 Gennaio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 18:50

Ambizioso. Ce lo hanno ripetuto senza posa: Cloud Atlas è un progetto ambizioso. E non che facessimo fatica a crederlo. Una storia che si snoda attraverso sei secoli, proponendo intrecci, legami e apparenti coincidenze come forse mai nessuno fino ad ora aveva osato fare. Quindi sì, l’ultima fatica dei fratelli Wachowski rappresenta un tentativo decisamente temerario.

Eppure in questo caso poco rileva la massima di Pico della Mirandola, secondo cui nelle imprese più ardite l’averci provato è già motivo di lode; essenzialmente perché il filosofo italiano si riferiva a sé stesso, in quanto giovane. Nel caso di Cloud Atlas ci troviamo in un terreno impervio, ma non meno familiare ai due autori (che stavolta hanno scritto e diretto il tutto insieme a Tom Tykwer), che tornano a trattare temi alti attraverso la lente di suggestioni mistico-orientaleggianti.

Un ritratto dai contorni epici, la cui imponenza rischia di confondere. Cloud Atlas ha dalla sua il fascino della presunta complessità, che molti potrebbe trarre in inganno, sia in positivo che in negativo. Protagonisti assoluti di questa cerebrale vicenda non sono i personaggi, come sarebbe del tutto legittimo supporre, bensì le loro anime, viaggiatrici di epoche e luoghi.

Si tratta di uno di quei contesti che al solo configurarli appassionano. Sei ambientazioni differenti per altrettante storie e ancora più personaggi. I numeri in Cloud Atlas contano, ed il 6, in questo caso, gioca un ruolo di assoluto rilievo. La straordinarietà dell’intera trama s’impone da sé, partendo dai mari del Pacifico di metà ‘800 con al centro le dinamiche della tratta degli schiavi; per poi spostarsi al 1936, quando un giovane amante cerca di comporre il proprio capolavoro nella terra di Scozia; passando per il 1973, dove una giovane giornalista combatte la minaccia di una grossa multinazionale; proseguendo nel 2012 con l’episodio più sfizioso, che vede coinvolti alcuni anziani mentre tentano di evadere dall’edificio dentro il quale vengono detenuti; per poi spostarci in una classica Neo Seoul da scenario distopico, con un clone che sperimenta per la prima volta l’amore; per finire nel 2346, epilogo di un mondo oramai derelitto.

Come abbiamo accennato poco sopra, difficile non farsi prendere da una certa curiosità. Ed è essenziale sottolineare come prima ancora che intrattenere, Cloud Atlas punti a far riflettere. Quella qui proposta è una disanima che tocca tematiche tutt’altro che banali, come il senso delle nostre azioni, e quindi delle nostre scelte; l’influsso che esercitiamo su chi ci sta accanto e questo su di noi; l’aldilà. Un rincorrersi però meccanico di teorie raffazzonate, quantunque fascinose e prodighe di significati.

Dietro le dinamiche di queste sei storie, peraltro deboli prese a sé stante, si cela un abisso di nonsense dissimulato con i soliti cliché da fiera dello spiritualismo. Il notevole escamotage degli incastri combinati tra le varie vicende funge da diversivo ad un impianto narrativo in fin dei conti fiacco ed inutilmente articolato, che tende ad allontanare lo spettatore per quanto si tenti forzatamente di renderlo brillante.

L’unica attrattiva di questa giostra di situazioni finisce con il risiedere in una ed una sola pratica: scovare le varie reincarnazioni di ognuno degli attori. S’instaura qui una sorta di processo metacinematografico, per cui i veri protagonisti sono gli attori stessi e non i ruoli che interpretano; sempre in relazione a ciò che dicevamo sopra, quando avvertivamo che al centro di tutto ci sono le anime e non i corpi che li “ospitano”. Ma ciò non basta ad acuire un senso di profondità che a dire il vero si limita a poche e sin troppo sdoganate nozioni alludenti all’anima-fantasma che si posa di fiore in fiore finché non è sazio/perfetto.

Non ci stiamo spingendo oltre per il semplice gusto di farlo, visto che l’istanza riflessiva è esattamente il presupposto fondante di questa pellicola. Cloud Atlas, il film, nasce e cresce sotto l’egida di genitori che desiderano ardentemente fare della loro creatura una fucina di idee su cui riflettere. Ma si tratta tutt’al più di spunti, talvolta degni di nota, tante altre meno. Volendo a tutti i costi penetrare la fitta coltre di associazioni, legami e unioni che compongono il tessuto di queste relazioni a distanza, quel che resta sono profili intrappolati all’interno di una gabbia senza alcuna via d’uscita. Tykwer e i Wachowski (e certamente Mitchell, prima ancora), delineano un cerchio esistenziale che anziché inneggiare alla vita inneggia alla morte.

Si fa un gran parlare di amore in più e più occasioni durante il corso degli eventi, ma ne scorgiamo ben poco in un processo che condanna le proprie pedine ad un reiterato ritorno; un ciclico ed insaziabile percorso in cui si viene sistematicamente scaraventati nell’arena. Si gioca con le parole, insomma, senza far caso alla semantica. La neolingua non è ancora riuscita ad eliminare le sfumature, perciò affermare che le persone siano sempre le stesse, fino a prova contraria, significa ben altra cosa rispetto a dire che si tratti sempre delle stesse persone. In certe operazioni linguistiche cambiando l’ordine dei fattori il risultato cambia eccome, e nel caso di specie ci troviamo dinanzi ad un vero e proprio stravolgimento. Anch’esso occultato, anche se non comprendiamo bene perché, considerata la chiarezza degli intenti.

Insomma, non si può glissare sul messaggio di fondo, la cui comprensione, se debitamente scovato, finisce con l’incidere anche senza volerlo. Anche perché tolto questo, che comunque rimane un presupposto fortissimo, Cloud Atlas offre comunque poco. Non abbiamo per esempio scorto tutta la spettacolarità di cui si è tanto discusso alla vigilia. Certo, non mancano le sequenze azzeccate, i colpi d’occhio che funzionano, ma il tutto è circoscritto a talmente pochi episodi da venire letteralmente inghiottiti dalle quasi tre ore di durata.

E non che i 172 minuti siano un problema di per sé, anzi: tale lasso di tempo si è rivelato palesemente insufficiente per esaurire un discorso, come già detto, appena abbozzato. Tale pochezza di contenuto si nota ancora di più proprio in considerazione della mole di contenuti, il cui concreto difetto è quello di non riuscire a fornire un mix solido e compatto, a dispetto dei già citati collegamenti pressoché matematici.

Sull’altro lato della bilancia troviamo invece delle prove attoriali meritevoli, espressione di un lavoro che senza dubbio i loro esecutori hanno trovato estremamente gradevole: d’altra parte non capita spesso di poter interpretare più personaggi nell’ambito del medesimo film. Citiamo Tom Hanks perché è colui che maggiormente si distingue, sia quando si tratta di esasperare certi tratti di alcuni suoi alter-ego, sia quando invece dimostra di aver preso a cuore uno specifico personaggio. Ma in fin dei conti nessuno resta indietro, fornendo perfomance di livello a tutto tondo, da Halle Berry a Jim Broadbent, da Hugo Weaving a Jim Sturgess; tutti si sono divertiti. Ciò a cui ognuno di loro si è dovuto sottoporre, chi più chi meno, è un autentico lavoro di trasformismo. Ed il risultato ha decisamente un suo perché.

Quanto appena evidenziato ci ricollega ai costumi, cui tocca un compito non indifferente; specie nella prima ora circa, quando ci stiamo ancora barcamenando tra un’ambientazione e l’altra. Su tutti, sono infatti i costumi a declinare i vari periodi, assurgendo quale componente più immediata per distinguere inequivocabilmente i vari scenari. Anche in tal senso, pollice alto.

Alla luce di quanto espresso sinora, toccherà quindi al singolo stabilire fino a che punto sia disposto a farsi ammaliare. Con noi l’incantesimo non ha sortito gli effetti desiderati, nonostante un soggetto grandioso ma maldestramente amalgamato, che saltella volutamente e con troppa disinvoltura dalla commedia alla fantascienza, passando per l’azione e toccando pure il dramma. È proprio la visione d’insieme a giocare a sfavore di Cloud Atlas, la cui resa crolla sotto il peso delle sue stesse macerie. C’è poco da imputare alla durata, perché un film del genere non poteva certo essere ulteriormente compresso. Eppure la sensazione, al di là di una confezione accattivante, resta quella di un’esperienza paradossalmente troppo diluita e pretenziosa perché riesca ad entrarci dentro come avrebbe dovuto; e come senz’altro avremmo sperato.

Voto di Antonio: 5
Voto di Simona: 8
Voto di Federico: 6+
Voto di Gabriele: 7

Cloud Atlas (USA, 2012). Di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski, con Tom Hanks, Halle Berry, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Jim Sturgess, Bae Doo-na, Ben Whishaw, James D’Arcy, Zhou Xun, Keith David, Susan Sarandon e Hugh Grant. Nelle nostre sale dal 10 Gennaio.