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Rotterdam 2013: Oh boy – Recensione del film di Jan Ole Gerster

La “sconsiderata” vita di un giovane berlinese in ventiquattro ore. Recensione di Oh boy, debutto per il regista Jan Ole Gerster

pubblicato 29 Gennaio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 18:05

Un giorno a Berlino. Per quanto banale, potrebbe essere questo il titolo di Oh boy, o per lo meno la sua approssimativa descrizione. Grazie al cielo il giovane regista Jan Ole Gerster ha optato per qualcosa di più originale, nonché calzante. Siamo nella capitale tedesca, in un giorno qualunque di questo periodo. Il giovane Niko si appresta ad uscire di casa, un appartamento affittato da poco, credendo che anche questa sarà una delle solite giornate.

In realtà, le cose non stanno esattamente così. Senza eccedere in dosi massicce di fantasia sopra le righe, la macchina da presa di Gerster segue le vicende del protagonista, mettendoci a parte di ventiquattro ore che lo metteranno a dura prova. Non fraintendeteci: Oh boy è un film spiritoso, spigliato, che punta anzitutto a far divertire e poi, se ne resta, pure a far in qualche modo riflettere.

Ma la cosa più importante è che ci riesce, quale che fosse il reale scopo dell’autore. Senza prendere posizione, in maniera discreta, venendo abilmente a patti col potenziale grottesco che è insito nel proprio DNA. Gerster dichiara di adorare Fellini e Kubrick, ma noi ci abbiamo visto, senza forzati paragoni, un po’ più di Woody Allen che altro nel suo film. Ed ovviamente, come ha avuto modo di rispondere alla fine della proiezione, la cosa non gli dispiace affatto.

Diamo ragione del titolo mediocre con cui abbiamo aperto le danze. A dispetto della sua scarsa proponibilità, è verità che Berlino interpreti in qualche modo un ruolo da co-protagonista in questa storia. D’altronde è da lì che dobbiamo attingere certi spunti portanti, che ci parlano di una città sorprendentemente vuota, prossima ad una sorta di dipartita spirituale. Non solo il bianco e nero, ma le vie semi-deserte, il silenzio colmato solo da alcuni azzeccati brani jazz che accompagnano con una mesta ironia le peripezie del giovane Niko.

Tuttavia sarebbe errato alludere a Berlino quale elemento discriminante dell’opera. Ancora una volta qui al Festival, a farla da padrone è la generazione che si affaccia irrimediabilmente all’età adulta, costretta a prendere l’ultimo treno che la consegnerà all’inevitabile step successivo. L’incapacità di scegliere la propria strada, di prendere decisioni in merito alla propria vita in altre parole: «un tempo davi l’idea di sapere esattamente cosa volevi», tuona Julika, una sua ex-compagna di scuola che ha trovato sollievo dalle proprie turbe mentali nel teatro contemporaneo.

Come dicevamo poco sopra, senza troppi patemi d’animo; la vita di Niko, semplicemente, scorre. Il goffo protagonista non ha alcun potere su di essa, tanto da tentare invano per tutto il giorno di prendere un caffè, senza chiaramente riuscirci: a dimostrazione della sua palese impotenza, della sua totale mancanza di controllo sugli eventi in cui incappa di volta in volta. Episodi, è bene dirlo, per la maggior parte esilaranti, possibili, ridicoli, irritanti. Lui stesso stenta a credere che certe cose gli possano davvero accadere. Eppure non si piange addosso, non sbraita, non sorride in preda ad una folle disperazione; semplicemente, prosegue verso l’appuntamento successivo (ah sì, in partenza la sua doveva essere una giornata densa di appuntamenti pianificati: per quanto ne sappiamo, nemmeno uno di questi si concretizza).

Oh boy si sofferma quindi con leggerezza (che non è per niente sinonimo di superficialità) sullo smarrimento di una generazione attesa al varco, cresciuta col mito dell’invecchiamento precoce e della corsa senza fiato, sennò il tempo passa e per il mondo del lavoro sei tagliato fuori – a meno di trent’anni (sic). Ma come prendere le difese di Niko? A cosa aggrapparsi? Il delinquente ha abbandonato gli studi senza dire nulla al padre per i due anni successivi; si è appena lasciato con la propria, adorabile ragazza; l’unico amico che sembra avere è un gradevole coglione. Tutto ciò, unito al buio pesto circa le sue reali aspirazioni, fanno del (non più) giovane protagonista il perdente perfetto, il loser per antonomasia (arisic). Eppure non ne ha l’aspetto, e la realtà è forse più complessa di quanto a molti fa comodo pensare.

Dopo un’allucinante giornata tra psicologi frustrati, presunte anoressiche dai complessi irrisolti, pseudo-attoruncoli, teppistelli, cameriere loquaci o nient’affatto loquaci, ex-nazisti dediti all’alcol, Niko ne esce stremato, più confuso che persuaso. Il disinvolto umorismo che contraddistingue buona parte del film va sempre più scemando, cedendo gradualmente ad una velata amarezza, con cui preferisce congedarsi, dato che la sensazione più intensa non può che essere quella sperimentata per ultima. Convincente e (perché no?) elegante debutto per il regista tedesco, che nel bravo Tom Schilling ha trovato un efficace alter-ego, diverso ma altrettanto reale, vivo.

Voto di Antonio: 7,5