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Die Frau des Polizisten (The Police Officer’s Wife): Recensione in Anteprima del film di Philip Gröning

Uno dei film più “temuti” tra quelli in Concorso è già andato. Alludiamo a The Police Officer’s Wife di Philip Gröning. Opera spossante, capace di mettere a dura prova anche il cinefilo più incallito e ligio al dovere.

pubblicato 30 Agosto 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 10:16

Ai Festival ogni tanto si affrontano delle sfide, oppure capita di soffrire assistendo a quelle altrui. Per esempio, prendete quella del regista tedesco di The Police Officer’s Wife. Dichiarata o meno, il diretto interessato riesce anzitutto in una di queste: rendere la visione dell’ottimo seppur non conciliante Il grande silenzio quasi una passeggiata. Il suo è cinema estremo, dalla prosa tenacemente personale, reticente a qualsivoglia compromesso, sebbene non stentiamo a credere ce ne siano stati.

Qui Gröning alza ulteriormente l’asticella, non mutando di una virgola il proprio approccio al mezzo se non per apportare qualche lieve limatura. Ostinatamente fedele alla sua visione riguardo a come debba essere narrata una storia sul grande schermo, nel rigorosissimo Die Frau des Polizisten quest’ultimo non fa sconti: prendere o lasciare. Chi accetta di rimanere non avrà certo vita facile, perché la prova a cui si viene sottoposti ha pochi precedenti nella storia (qualcuno, tanto per dirne uno, starà magari pensando a Béla Tarr; tuttavia si tratta di due tipi di sfida alquanto differenti).

Ancora adesso, a distanza di parecchie ore dalla proiezione, mentiremmo se dicessimo di averlo completamente metabolizzato: sappiamo che non ci è rimasto affatto indigesto, e già questo è tanto. Tuttavia la potenza che eppur giace al cuore di The Police Officer’s Wife avvertiamo vada ben oltre quel terribile finale, che ripaga di quasi tre ore torturanti. Amore e odio, insomma? No, ma nemmeno impeto autolesionista, almeno da parte nostra. Anche noi però, come la moglie del poliziotto, risentiamo dei lividi indotti dai pugni e dalle pedate che la visione ci assesta a più riprese. Tanto che ciò a cui assistiamo si può per certi versi, forzando un po’, applicare al rapporto sperimentato con questo film: ci fa soffrire, anche fisicamente, eppure non vogliamo liberarcene.

Al centro della vicenda un’ordinaria famiglia tedesca composta da padre, madre e figlia piccola. Gröning si focalizza solo su alcuni, essenziali momenti, strutturandoli in maniera oltremodo rigida, ossia 59 capitoli della durata totale di 175 minuti che sembrano non finire mai. Schermo nero tra un capitolo e l’altro, con delle scritte che campeggiano sullo schermo tese puntualmente a segnalarci l’inizio e la conclusione di ognuno di essi. Ciò che ne consegue è un effetto devastante: l’azione, di per sé davvero contenuta (per usare un eufemismo), viene così costantemente interrotta, facendoci desiderare anche il un minimo sussulto. Così, non appena si gira in esterni, o la macchina da presa si limita a muoversi per qualche secondo in più, si finisce col riprendere aria, rimasti in apnea per così tanto tempo da rischiare l’asfissia.

Descrivere quanto accade durante questi spezzoni estremamente frammentati equivarebbe a consegnare una forma netta ed inequivocabile ad un film la cui interpretazione magari non è per nulla aperta, ma che nonostante ciò lascia la porta spalancata anche alla più ardita tra le speculazioni. Il punto, tra l’altro, è che anche solo riuscire a raccapezzarsi nel bel mezzo di quel lentissimo fluire di immagini e situazioni apparentemente degne di nota richiede già uno sforzo notevole; comunque non ci viene consentito di osare per almeno un’ora abbondante. In questo lasso di tempo veniamo investiti da questo avvicendarsi di episodi a prima vista banali, ma che eppure, a posteriori, sappiamo essere andati in profondità nel tratteggiare questo spaventoso dramma familiare. Così come spaventose sono certe uscite, del tutto estemporanee, che ci ridestano dal torpore consapevole a cui veniamo costretti per quasi tutto il film. Un atto di violenza improvviso, oppure un qualsiasi atto ai nostri occhi semplicemente inspiegabile, ci foraggia per la successiva mezz’ora di certosina elaborazione di eventi, atteggiamenti, sguardi, parole, che si dimenano come pesci appena pescati.

Ma come in parte si sarà intuito, non solo la suddivisione ma anche la disposizione degli eventi tende a complicare le cose. Data la tendenza a seguire l’azione nel suo svolgersi completo all’interno del medesimo frammento, ogni stacco di montaggio sospetto o inquadratura meno convenzionale tendono a metterci sul chi va là. Meccanismo involontario, che per riflesso incondizionato si assume al fine di sopravvivere fino all’ultimo.

Perché The Police Officer’s Wife è un’aberrante storia di violenza, che destabilizza non semplicemente per i contenuti quanto per la forma; o meglio, la forma amplifica all’inverosimile la portata degli eventi, in maniera peraltro perversa, ossia anestetizzandoci e rendendoci quindi fatalmente esposti. Data la severa precisione con cui Gröning dirige ogni cosa, è più facile venire respinti da questo modus operandi, coerente fino alla fine. Di contro, il film elargisce immagini, se non scene, davvero potenti, pregne di quel significato che la mera superficie non ci restuirà mai nella sua interezza, nemmeno alla fine.

Una storia non d’amore ma di ossessione, che è in fondo l’unica passione che tiene uniti marito e moglie, ciascuno dei quali odia sé stesso più di quanto sia capace di odiare l’altro. Non a caso, dopo l’ennesima lite sfociata in maltrattamento, il marito, moglie distesa a terra svenuta, non riesce a far altro che urlare a squarciagola più e più volte una sola parola ed una soltanto: «io, io, io, io…». Esatto, il problema è quell’io da cui non riesce proprio a separarsi, e che gli fa credere che la vicinanza dell’altro sia necessaria come il respiro. Ma non è così, perché la storia dei coniugi brutalmente mostrata da Gröning ci dice, al contrario, che ciò a cui i due sono più attaccati, ciò di cui non possono in alcun modo fare a meno (anche a costo di farsi del male, a tutti i livelli) è proprio tale ossessione. Un’ossessione profondamente infantile, incresciosa perfino. La loro unica figlia (bravissima peraltro), innocente spettatrice di questo teatrino dell’orrore, rimane stritolata da questi due scontri efferati. Due, sì: quella che padre e madre portano avanti ciascuno al proprio interno.

La moglie ad un certo punto dirà, ancora stordita: «tu non sei cattivo, lo so». E c’ha ragione. Il marito non è cattivo, anzi, ama a tal punto la moglie ed odia a tal punto sé stesso che per infliggersi del male in profondità maltratta ciò che gli è più caro al mondo. A fomentare tale abominevole violenza è quindi, paradossalmente, un impeto radicalmente autodistruttivo. Atteggiamento che non tocca solo il carnefice, bensì anche la vittima: quel che cambia è il diverso oggetto verso cui si rivolge, con crudele esclusività, tale insanabile ossessione, sentimento irrimediabilmente equivocato con l’amore. Si finisce così per essere risucchiati da quel vortice di accecante follia, di furia improvvisa, di pesante e irragionevole sconforto. Il possesso, mentale ancor prima che fisico, resta l’unica facoltà verso cui ripiegare. L’ultima da esercitare quando oramai l’uomo non conosce altro che l’istinto, ferale, definitivo. Oltre, un vuoto incolmabile. Il nulla.

Voto di Antonio: 8
Voto di Gabriele: 7

The Police Officer’s Wife (Die Frau des Polizisten, Drammatico, Germania, 2013) di Philip Gröning. Con David Zimmerschied e Alexandra Finder.