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Che strano chiamarsi Federico: Recensione in Anteprima del film di Ettore Scola

In una notte romana, due amici e colleghi girano per le strade della Città Eterna raccontandosi e raccontandoci, mentre caricano a bordo personaggi, sogni e ricordi. Così Ettore Scola ricorda Federico Fellini nel suo Che strano chiamarsi Federico

pubblicato 11 Settembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 09:45

Un uomo misterioso siede sulla battigia, proprio dinanzi ad un mare calmo su cui campeggia un tramonto da mozzare il fiato. Attorno e davanti a lui si avvicendano una serie di immagini, per alcuni familiari, in ogni caso bizzarre. Chi è quest’uomo? E cosa significano quei personaggi che occupano la scena in maniera del tutto inusuale?

Non abbiamo nemmeno il tempo di porci certe domande, che la musica ci dice già tutto. E se non è lei a farlo, lo è quella voce narrante che interrompe la magia, anche se solo per pochi secondi. Perché questa è la storia di un cineasta, di uno che, tra il serio e il faceto, non ha mai disprezzato l’appellativo di visionario se appiccicatogli addosso, anzi. Che strano chiamarsi Federico è un omaggio, sentito, da parte di una altro regista che ha fatto la storia del nostro cinema, quell’Ettore Scola che più e più volte si è intrattenuto con Federico Fellini, l’uomo, non solo il regista.

In questa giostra di ricordi quasi non importa quanto gli eventi siano stati mantenuti intatti, totalmente aderenti a ciò che avvenne: al contrario, Scola sa meglio di noi che se fosse mancata qualche “bella bugia” il suo amico Federico ne avrebbe risentito. Sì, poiché il giovane mingherlino venuto da una Rimini devastata dalla guerra era uno su cui la realtà, strettamente intesa, non ha mai esercitato alcun fascino particolare. «Un grande bugiardo», diceva egli stesso di sé, «il più grande dei bugiardi» diceva Alberto Sordi di lui; ma, aggiungeva Albertone, «con una capoccia così!».

Ed in fondo come parlare di Fellini, come riferirsi a lui se non per immagini? Quelle che con una bacchetta magica a forma di macchina da presa Fellini estrapolò dalla sua fervida e quasi sempre confusionaria immaginazione, plasmandole come pochi hanno avuto modo di fare nel corso di 100 e passa anni di cinema. Dice che non intendeva strappare alcuna lacrima, Scola, perché Federico, che non amava prendersi troppo sul serio, si sarebbe incazzato. Ma la sensibilità dell’uomo ha avuto il sopravvento su quella del regista; o forse è il contrario. Sta di fatto che in questo film piccolino, magari per questo così caloroso, l’autore di Trevico un po’ di commozione la suscita.

Senza limitarsi all’insopprimibile ricorso all’evocativo materiale di repertorio, senz’altro doveroso, bensì integrando sequenze costruite che tentano in qualche modo di colmare lacune rimaste ancora tali anche a distanza di vent’anni dalla morte del suo protagonista. Partendo dai primi passi mossi allo storico Marc’Aurelio, grazie al quale Fellini s’impose come vignettista, passando per le scorribande notturne di due amici non più giovanissimi che trovano nelle notti romane la loro dimensione privilegiata.

La particolarità di questo lavoro sta nel materializzare un Fellini che è sì identico a quello che conosciamo, ma visto con gli occhi di un amico e collega che sembra voglia ancora dirgli qualcosa, mentre osserva il suo volto nella penombra di un automobile. A Federico piaceva guidare, soprattutto la notte, perché era in quel lasso di tempo che trovava ispirazione per ciò che poi avrebbe raccontato, non per forza nei suoi film. Schegge di vita vissuta che si mescolano con frammenti vita sognata, quella che per Fellini era sempre festa, spettacolo, fedele all’immagine del tendone di quel circo che da piccolo gli aveva cambiato la vita. Vero? Falso?

Non importa. Si possono coltivare riserve, e a ragion veduta, su un’impostazione così incurante di quello che siamo soliti definire reale, questo è certo. Ma a ben vedere, se applicato a quello strambo personaggio che fu Fellini, un simile approccio appare l’unico possibile, se non per capirlo quantomeno per accettarlo. E su questa falsa riga procede questa pellicola-omaggio di Scola, che prima ancora di setacciare tra il “già detto”, fruga nella dispensa dei propri ricordi, di quanto Fellini gli ha lasciato anzitutto come persona. Che poi tale persona non si possa scindere con così tanta facilità dal regista è un altro paio di maniche.

Perché in fondo ciò che vuole dirci il cineasta di origini campane è che nei film di Federico c’era l’universo di Federico: tanto di quello vecchio quanto di quello giovane, che con stupore si muoveva per le vie di Roma non ancora ventenne. Che strano chiamarsi Federico si pone dunque al di là della mera e se vogliamo mortificante operazione nostalgia: certo, ci parla di un mondo che non c’è più e che osservando il quale non si può fare a meno di immaginare di gran lunga più colorato di come il bianco e nero di cinema e televisione ce lo hanno consegnato. Soprattuto questo film ci ricorda come e quanto il cinema non possa fare a meno, ne mai potrà, di quella sacra capacità di meravigliarsi, ben oltre il disincanto per una realtà che almeno tra queste mura può e deve essere migliore, o almeno diversa. Perché il vero realista, diceva Federico, è il visionario; ed in nessun altro ambito come nel cinema l’uomo riesce a contendere il posto a Dio. Anche queste, parole di Fellini.

Voto di Antonio: 7,5

Che strano chiamarsi Federico (Italia, 2013) di Ettore Scola. Con Giulio Forges Davanzati, Tommaso Lazotti, Maurizio De Santis, Ernesto D’Argenio, Giacomo Lazotti ed Emiliano De Martino. Nelle nostre sale da domani, 12 Settembre.