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One on One: Recensione in Anteprima del film di Kim Ki-duk

Dalle beghe familiari di Moebius, Kim Ki-duk torna di forza sulla società coreana in One on One, tratteggiando in maniera a dire il vero non troppo efficace le anomalie di un sistema oltre che quelle dei singoli in un contesto profondamente segnato dall’ingiustizia e l’esigenza di porvi rimedio

pubblicato 28 Agosto 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:48

È un Kim Ki-duk oltremodo prolifico quello che per la terza volta consecutiva presenta un suo film a Venezia. Due anni addietro fu Leone d’Oro con Pietà, la scorsa edizione toccò invece al non meno “scandaloso” Moebius Fuori Concorso. Ora è il turno di One on One, rientrante nella selezione ufficiale delle Giornate degli Autori – inutile dirlo, uno dei più attesi se non il più atteso. Film che non conosce mezzi termini, dichiaratamente di denuncia com’è. Con One on One, ammette il regista, «riguarda il posto in cui vivo, ciò che è oggi la Corea del Sud». Compito arduo, perché anche se avulsi dall’ambiente non risulta difficile immaginare che la questione sia complessa, richiedendo il tempo e lo spazio che un film di appena due ore raramente può contenere.

La mole di riferimenti o dinamiche oramai incistate nella società coreana è cospicua e a Kim Ki-duk non resta che limare a tal punto da vanificare l’apprezzabile obiettivo iniziale. I suoi personaggi, ancor prima che le situazioni in cui vengono coinvolti, appaiono per certi versi stilizzati, concepiti come sono per racchiudere in sé stessi non tanto una persona quanto un atteggiamento, un difetto tipico della gente coreana. In tal senso il regista ne ha per tutti, a prescindere da ceto, condizione e contesto: tutti ingranaggi di un sistema ben oliato, all’interno del quale a ciascuno tocca una parte prestabilita, e nel più dei casi tutt’altro che edificante.

Ma per farsi un’idea di come venga ridotto il tutto, basti pensare alla scena iniziale del film, in cui una ragazzina viene pedinata e poi soffocata da un gruppo di uomini. Un delitto tanto efferato quanto inspiegabile, che a suo modo intende iniziarci ad una realtà che funziona secondo logiche profondamente ingiuste. Tutto risaputo, perché a prescindere dalle tare specifiche di un determinato popolo o cultura, è per lo meno ingenuo immaginarsi una società realmente giusta. Ecco, è sul concetto di Giustizia che anzitutto si sofferma One on One: chi deve eseguirla? Ed in che termini?

Qui il discorso di Kim Ki-duk, da retorico che è in un primo momento (basti pensare all’annosa dicotomia ricco/povero, con annessi e reiterati luoghi comuni) rischia addirittura di andare oltre. Nel film un gruppo di civili, capeggiati da un carismatico leader, compongono un gruppo che prende il nome di Shadow; il loro scopo è quello di costringere gli esecutori e i mandanti del delitto della ragazzina di cui sopra a scrivere la propria testimonianza, con le buone o con le cattive. Tutto il film si snoda attraverso la caccia e la susseguente tortura di questi componenti, che dopo essere stati sottoposti alle violenze più disparate cedono, mettendo nero su bianco il loro coinvolgimento.

È questo un passaggio dapprima interessante, incentrato com’è sulla volontà e la responsabilità che ne deriva, mentre quasi tutti ammettono di avere semplicemente eseguito un ordine. Alla lunga, dopo aver riproposto la medesima scena, cambiando di fatto la modalità di tortura e la copertura utilizzata dagli Shadow, il discorso perde di mordente, prestando il fianco ad una ripetitività che anziché rinforzare indebolisce la portata di certe scene. Quando il capo dei vendicatori rinfaccia per l’ennesima volta la necessità del ricorso alla violenza perché i suoi ostaggi temporanei hanno commesso qualcosa di ancora più truce, la perplessità va gradualmente montando. Perché sì, si capisce che il capo sta sostanzialmente scaricando la propria furia vendicativa, vittima com’è egli stesso del dolore che lo acceca, ma al di là della violenza manca sempre il pugno nello stomaco, la scena in cui il film ti mette KO.

Forse è la mole di parentesi che vengono aperte e chiuse con sin troppa velocità a non permettere a Kim Ki-duk di sviluppare una discussione che ha più l’aspetto del panegirico, dunque dalla contenuta carica sia emotiva che narrativa. Sebbene One to One non sia del tutto privo di scene potenti, come uno stupro abilmente camuffato da ordinario rapporto sessuale, o un finale che è sì una chiusa d’impatto, ma che tira le somme di un discorso sviluppato per metà. Tutte vittime, ci viene detto; ciascuno sperimenta sulla propria pelle difetti e contraddizioni che anziché fermare non fanno altro che fomentare la profonda ingiustizia che segna la Sud Corea dei nostri giorni. Peccato che il ritratto non riesca a dare ragione di tale realtà.

Il risultato è che quest’ultima opera del maestro coreano rischi quasi di apparire paradossalmente debole perché sorprendentemente innocua. Sbaglia chi pensa che Kim Ki-duk abbia fatto esclusivo affidamento sulla violenza, fisica o psicologica che sia, vero; ma non è tanto lontano dal vero colui/colei il quale scorga in questo One on One un’opera in fondo incompleta, insolitamente poco energica, altra cosa rispetto ad opere di pancia come Pieta. Resta da scegliere se un Kim Ki-duk imperfetto sia comunque meglio di niente; e qui ciascuno è senz’altro invitato a dire la sua.

Voto di Antonio: 5

One on One (Il-dae-il, Corea del Sud, 2014) di Kim Ki-Duk. Con Dong-seok Ma, Young-min Kim, Yi-Kyeong Lee, Dong-in Jo, Teo Yoo, Ji-hye Ahn, Jae-ryong Cho, Jung-ki Kim, Hee-Joong Ju, Gwi-hwa Choi, Hwa-Young Im e Su-dam Par. Nelle nostre sale da oggi.