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The Look of Silence: Recensione in Anteprima del documentario di Joshua Oppenheimer

Qualora alcuni avessero chiuso con l’orrenda pagina di storia che mutò definitivamente l’Indonesia circa cinquant’anni fa, sappiate che tali eventi non hanno ancora chiuso con voi. Joshua Oppenheimer porta alla Mostra The Look of Silence, devastante integrazione al suo primo, travolgente The Act of Killing

pubblicato 28 Agosto 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:46

Sono trascorsi due anni da uno dei documentari più spiazzanti degli ultimi anni, quel The Act of Killing che in pochissimo tempo si è imposto quale fenomeno documentaristico tra i più significativi degli ultimi anni. Fatti, quelli narrati nel film di Joshua Oppenheimer, che hanno suscitato scalpore per la crudezza e la forza nel trasmetterceli. Con The Look of Silence il regista torna sull’argomento, adottando un taglio leggermente diverso. Ineludibile, dunque, il seguente quesito: che rapporto c’è tra quest’ultima opera e quella che l’ha preceduta?

Trattasi in realtà di film diversi, sebbene a maneggiarli sia il medesimo autore e lo sfondo sia anch’esso uguale, ossia la strage umanitaria avvenuta in Indonesia tra il 1965 e il 1966. L’approccio stavolta parte da altri presupposti, in primis quello di conoscere la vicenda, anche per sommi capi, così come esposta in The Act of Killing. In tal senso, più che un sequel, The Look of Silence va inquadrato come un’integrazione al discorso fatto due anni fa: lì era il generale, qui il particolare. Certo, il crimine in questione, politico o meno che sia (come vorrebbero coloro che lo perpetrarono), è soprattutto storia di singoli; una serie di tragedie personali che emergono in maniera inevitabile sullo sfondo di una pagina che ha profondamente inciso sulla storia indonesiana degli ultimi cinquant’anni.

Laddove allora nel primo conosciamo il fenomeno dell’ascesa e consacrazione della Gioventù Pancasila, tutt’ora al Governo, accostandoci alla loro prospettiva, mentre le vittime restano dei tremendi numeri oscurati dall’entità di una strage a senso unico, qui si passa dalla parte opposta, ossia di chi ha soltanto subito senza aver guadagnato nulla da quei misfatti, se non il lutto per un parente perduto. È alquanto indicativo che l’esistenza di The Look of Silence finisca per chiarirci ancora meglio quale fu uno dei maggiori punti di forza di The Act of Killing, ovvero l’intuizione di farci rivivere quel periodo attraverso il racconto di Anwar, il brutale mandante oltre che esecutore di numerose uccisioni.

Stavolta il protagonista è un optomestrista il cui fratello perse crudelmente la vita a causa del neo-regime di allora. Tale rovesciamento ci dà la dimensione di quanto, in maniera sinceramente perversa, la prospettiva dei vinti rimanga senza dubbio la più interessante. Perché sì, anche in The Look of Silence si avverte quella tensione orribile verso ciò che è capace di produrre l’animo umano; ma va altresì ammesso che la compassione per le vittime resta un sentimento sin troppo opaco, ahinoi, rispetto al raccapriccio che è in grado di provocare la discesa nella psiche di chi ha commesso delitti di siffatta ferocia.

Ed infatti al termine della visione, quando si cerca di tirare le somme, emerge chiaramente che anche a questo giro i momenti più forti sono quelli in cui, ancora una volta, è il carnefice a dire la sua. In The Look of Silence in primo piano c’è un luogo specifico, il cosiddetto Snake River, dove venivano abbandonati tanti, troppi corpi torturati e mutilati. Due di coloro che erano deputati allo svolgimento delle operazioni, oramai vecchi, si prestano alle macchine da presa come fossero degli eroi. Anzi, di più. Eccoli lì a improvvisarsi registi mentre rievocano la dinamica di un’uccisione, descritta con dovizia di particolari, come se fosse accaduto il giorno prima. Agghiacciante quando a un certo uno di questi aguzzini spiega che lui ed alcuni dei suoi compagni erano soliti bere almeno due bicchieri di sangue delle vittime sgozzate. E se questo vi sembra terribile, aspettate di conoscere la ragione di tale pratica: perché, a detta degli assassini, bere il sangue delle proprie vittime era l’unico modo per non impazzire.

E, di nuovo, sono sempre loro, i criminali, a tenere desta la nostra attenzione; non per indifferenza verso le vittime, verso le cui pene si può tutt’al più simpatizzare, bensì perché niente come la deformazione così accentuata di un essere umano oramai al di là della morale riesce a rapirci in questo modo quantuque ci ripugni. Sondare la sozzura di quelle coscienze forse irrimediabilmente sopite da tempo ci dice molto non su una persona o, peggio, su un tipo, ma su ciascuno di noi. Questo, volendolo ammettere a noi stessi prima che a chiunque altro, è il principale motivo per cui, una volta dentro a quelle storie di sangue, violenza e bestialità, veniamo risucchiati in un vortice che ci spinge ad andare avanti, sebbene urtati, scossi, nauseati.

Stiamo esagerando? Francamente non lo crediamo. Oppenheimer fa leva sull’inclinazione più naturale dell’uomo, malgrado non gli sia la più congeniale, ossia compiere il male. Concetto, quello di male, malvagio e affini, oltremodo precario quando si comincia a tenere anche solo in considerazione l’idea che per tanti compiere certi atti non solo è irrilevante ma talvolta addirittura giusto. Sarà forse relativismo? Beh, per lo più si tratta di prendere coscienza del fatto che il Male sarà anche Assoluto; decisamente meno le forme attraverso cui si manifesta. Prendete The Look of Silence (ma anche, se non di più, The Act of Killing): qui a colpire non è mica la cattiveria. Nossignore. La vera atrocità sta in quella che ha tutta l’aria di essere una sincera e proprio per questo orripilante buona fede.

Voto di Antonio: 8
Voto di Federico: 8
Voto di Gabriele: 9