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Il giovane favoloso: Recensione in Anteprima

Mario Martone si sofferma in maniera troppo timida sulla vita di uno dei maggiori poeti della nostra Letteratura, ossia Giacomo Leopardi. A questo punto, dei tre italiani in Concorso alla Mostra, quello che ne esce peggio

pubblicato 1 Settembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:38

Probabilmente il più atteso della vigilia tra i film italiani in Concorso, Il giovane favoloso di Mario Martone non si può certo dire che sia un film senza merito. Puntare così in alto nel tentativo di tratteggiare una delle figure di spicco della nostra Letteratura è impresa assai ardua a prescindere, e per una sequela di motivi: troppo cospicua l’opera dello scrittore, troppi spazi da riempire e via discorrendo. Martone ci prova, cercando di dare ragione non tanto di quel talento (ché è sì, questo, affare impossibile) quanto della sua gestione; o per meglio dire, cosa ha comportato, e in che termini, questo dono che è anche un fardello.

E quanto scriviamo qui di seguito è ciò che, a torto o meno, recepiamo dal film; cerchiamo infatti di non integrare notizie o studi aggiuntivi. Per quanto ci riguarda, di Leopardi conosciamo solo quello che abbiamo ricavato mediante il lavoro di Martone; o almeno ci sforziamo di pretendere che sia così. Precoce, il giovane Giacomo dimostra una spiccata attitudine allo studio, vuoi per la rigida educazione impartita dal padre in tal senso, vuoi perché il primogenito della famiglia Leopardi è sempre stato piuttosto cagionevole, trovando dunque nei libri un fidato compagno. Tuttavia tanta è la propensione allo studio quanto scarsa sembra essere la capacità di reggere un talento straordinario, versato in più materie, sebbene la poesia rappresenti il terreno a lui più consono, quello che gli consente di esprimersi a pieno.

Il regista costella il film di episodi, operando una cernita tra quelli che meglio possono descriverci il suo Leopardi; schivo, melanconico, affatto propenso alla vita mondana. Gli occhi del ragazzo in un primo momento si sbarrano dinanzi ad ogni cosa, infiammato da quella curiosità che distingue non solo le menti tendenti al genio ma anche e soprattutto i bambini. Ma che la vita che lo aspetta non sarà quella che avrebbe voluto (ammesso che una sua ideale il Leopardi l’avesse mai davvero maturata) lo si capisce dalle primissime battute: lui e i suoi due fratelli, Carlo e Paolina, vengono sottoposti ad una sorta di gara a quiz sotto l’attenta e severa egida del padre Monaldo. Già qui si rivela il carattere di Giacomo.

Il punto è che Il giovane favoloso può essere essenzialmente percepito in due modi: o come una disordinata biografia, grazie alla quale, per esempio, scopriamo quanto il diretto interessato adorasse il gelato; oppure come la parabola di un genio disadattato, che ha fatto fondo alle sue condizioni fisiche e spirituali per attingere a tutti quei pensieri e quelle parole come probabilmente non se n’erano mai visti. Se nella prima fattispecie il discorso si modula nell’ambito della sfera soggettiva (magari sapere che Leopardi coltivasse una predilezione per il gelato non interessa affatto), nella seconda la questione cambia. E di molto.

Ci rendiamo ben conto di quanto fosse complicato, se non addirittura al di là delle forze in campo, dare risposta ad un certo quesito, ma è da lì che passa il senso di un film che si accosta ad una figura di questo tipo: sono state le circostanze a contribuire al suo genio o è colpa del suo talento se si sono verificate talune circostanze, croniche o meno? La domanda, sospettosamente marzulliana, va ammesso, aiuta a capire anzitutto quale approccio proporre in un contesto del genere. Né un film, né una libreria di tomi potranno mai “spiegare” da cosa dipenda il genio, l’estro spontaneo e così spesso incontrollato – nonostante ci abbiano provato più e più volte. Eppure Martone sembra scegliere di adagiarsi su quanto troppe volte, non di rado a sproposito, si dice, si scrive o si pensa di questa categoria così particolare. Il suo Leopardi è un disadattato, lucido quanto più di chiunque altro, e che proprio per questo soffre una solitudine profonda, che va ben oltre l’assenza di compagnia.

Ma il tutto è già visto, risaputo, a scapito della complessità dell’individuo-persona, ridotta così alla forma di uno stampino, perché tutti i geni, specie se arrivano corredati di tare fisiche, sono dei pessimisti, perpetuamente rintanati in sé stessi, inclini alla malinconia, refrattari alla speranza. Tutte caratteristiche verosimili, per carità, ma che possiamo riscontrare tutt’al più per analogia; l’approfondimento deve però proseguire, bisogna scavare di più. Ringraziando il cielo Martone non indulge troppo sull’introspezione del suo personaggio, malgrado in tal senso qualche cosa andava per forza concessa. Il punto però è che più il racconto prosegue meno afferrabile diventa il suo protagonista, che tra una frustrazione e l’altra emerge per lo più come uno sfigato dei giorni nostri.

Martone, peraltro, non manca di giocare la di per sé ambigua carta sessualità: l’autore della celeberrima A Silvia, lascia a più riprese intendere il film, in realtà potrebbe aver coltivato delle pulsioni per il suo miglior amico Antonio Ranieri (Michele Riondino) e prima ancora, in forma decisamente più contenuta e opaca, per il suo compagno di penna Giordani. Basterebbe l’occhiata sospetta appositamente girata e montata nella scena in cui Giacomo osserva l’amico Antonio uscire nudo dalla vasca, oltre ad altre frasi per così dire “sospette” («come sarebbe la mia vita senza di te?» o giù di lì). Prima di accusare tali considerazioni di alcunché, chiariamo che è Martone a suggerire in maniera piuttosto evidente la cosa; in secondo luogo, la questione è «cui prodest?». Non che la traccia appena citata sia primaria, anzi, ma alla luce di quanto e come viene sviscerato il Leopardi, il soffermarsi sul suo orientamento sessuale ci sembra per lo più un espediente, se non un tentativo di coprire la mancanza di profondità nell’indagine portata avanti.

E se quella condotta ne Il giovane favoloso non è anche, se non soprattutto, un’indagine, allora cos’è? Di certo non è un’opera di pancia, anzi, a più riprese rasenta quel processo di sofisticazione che attiene più che altro ad operazioni meramente intellettuali. Sì perché in realtà della sofferenza e del disagio del protagonista emerge poco, e quel poco risulta ulteriormente inficiato dalle continue lagnanze, ironiche o meno, del suddetto, il quale non manca spesso di prodursi in discorsi della serie «io ho il mal-di-vivere e voi no». Poco, francamente troppo poco per chiunque, figurarsi per un poeta che ha lasciato il segno come pochi.

Purtroppo tocca pure constatare che il bravo Elio Germano qui non riesce ad incidere come ci si sarebbe aspettato. Il suo Leopardi in alcuni momenti scade addirittura nel caricaturale, tra una risata quantomeno forzata e la totale assenza di inflessione dialettale, impensabile persino per un nobile marchigiano di quel periodo. Né si pensi che qui si tratti di spaccare in due il capello, perché il film stesso si tradisce quando, per nulla a torto, sottolinea l’indiscutibile importanza di Recanati nel percorso del poeta e scrittore; del cui rapporto con la terra natia si può come minimo dire che fu complesso. Burrascoso, ostile, ma senza dubbio fondamentale.

Fatta allora eccezione per certe estemporanee intuizioni di tutto rispetto – come la sfuriata, solo immaginata, all’indirizzo del padre nella parte centrale, oppure certi episodi relativi al soggiorno partenopeo – il lavoro si risolve nello sfoggio di casistica, magari un po’ abbellito. Per il resto, tutto ciò che sappiamo ci viene semplicemente detto; questo vale per l’inquietudine esistenziale tanto quanto per la sua pulsione artistica, che viene qui esplicitamente evocata, senza costruzioni di sorta, dal Leopardi stesso, quando alla sorella Paolina giustifica la mole di pagine e pagine facendo notare che i suoi sono pensieri incontrollati e che una volta che arrivano devono in qualche modo uscire – deriva, se vogliamo, anacronistica, dato che è un modo molto novecentesco d’intendere l’impeto a produrre Arte.

Certo, a Martone di attenuanti ne vanno riconosciute. La vetta da scalare era troppo alta, ed è inutile millantare che i seppur coraggiosi scalatori siano riusciti nell’immane impresa di piazzare la propria bandiera sulla sommità della montagna. Piuttosto l’impressione è che abbiano dovuto interrompere la spedizione a metà strada, il che è meritorio quanto alle intenzioni, non certo al risultato. Chi scrive sarebbe stato ben lieto di vedere un altro film; non so quale di preciso, perché, come già evidenziato in apertura, Leopardi lo conosco per lo più di fama. Ma, ecco… uno di quelli che fosse stato in grado di parlare a chiunque di chi fosse questo strano italiano vissuto nel secolo XIX, la cui vita venne meno, a vista umana, troppo presto. Ma poi mi vengono in mente le parole di un certo Gilbert K. Chesterton, secondo cui la poesia è semplicemente intraducibile. E in fin dei conti, penso, non è colpa di nessuno se si sperava nell’impossibile. Può darsi.

Voto di Antonio: 5
Voto di Federico: 7
Voto di Gabriele: 7

Il giovane favoloso (Italia, 2013) di Mario Martone. Con Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco, Paolo Graziosi, Iaia Forte, Sandro Lombardi, Raffaella Giordano, Edoardo Natoli, Giovanni Ludeno, Federica de Cola, Giorgia Salari ed Isabella Ragonese. Nelle nostre sale da giovedì 16 ottobre.