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Pasolini: Recensione in Anteprima del film di Abel Ferrara

Pasolini di Abel Ferrara, con Willem Dafoe, è fra gli ultimi film in Concorso al Festival di Venezia 2014. Leggete la nostra recensione in anteprima

pubblicato 5 Settembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:31

Abel Ferrara spacca in due la Mostra. Il suo Pasolini è il film più complesso di tutta l’edizione del Festival di Venezia 2014, ma quantomai urgente per un mezzo che attraversa una delle sue fasi di cambiamento epocale, come altre ce ne sono state in passato ed altre ancora ce ne saranno. C’è da essere contenti però, perché ciò vuol dire che il cinema è vivo e vegeto

È ufficiale. Pasolini di Abel Ferrara è senza dubbio il film più difficile di cui scrivere – così, a caldo – tra quelli visti alla Mostra. Un po’ ce l’aspettavamo, inutile negarlo. Al Lido le fazioni si sono schierate seduta stante, neanche il tempo che accendessero nuovamente le luci in Sala Darsena: chi ha fischiato, chi se l’è data a gambe, e chi invece è rimasto oltre i titoli di coda ad applaudire. Il più divisorio del Festival? L’abbiamo trovato.

A volerle ricercare, esistono ragioni per cui tutto ciò è accaduto. Tra i delusi o, peggio, gli adirati (che sono la maggior parte), non si fa fatica ad annoverare coloro che da questo film si aspettavano una sorta di biopic, sebbene articolato, particolare. Questi evidentemente, spiace dirlo quasi avessimo la puzza sotto il naso, non conoscono Ferrara. Aspettarsi dal suo Pasolini qualcosa che anche solo si avvicinasse al biopic, alla narrazione più o meno disordinata della vita di Pasolini, è un azzardo come minimo. Sia chiaro, il regista americano ci ha abituato a tutto, ed in fin dei conti potevamo aspettarci di tutto. Anche questo va detto.

No, invece Ferrara si conferma Ferrara. Questa sua ultima fatica è un film imperfetto fino al midollo, asettico come solo i suoi film sanno essere, crudo e per certi aspetti quasi disinteressato. Attenzione però, perché quanto appena rilevato esige almeno una spiegazione. Pasolini non è un film su Pier Paolo Pasolini, bensì sull’opera, a tutto tondo, dell’intelletuale bolognese di nascita e friulano d’adozione. E dato che in una qualunque storia, piaccia o meno, ciò che si ricorda meglio è la fine, Ferrara mette in scena le ultime ventiquattr’ore di vita dello scrittore (come recava scritto nella sua carta d’identità alla voce “professione”).

Di complesso c’è che col regista newyorkese non puoi mai sapere. Troppo è spiazzante il suo cinema, ulteriormente rarefatto negli ultimi anni, segnati da difficoltà indicibili anche solo per riuscire a cominciare a girarlo, un film. Definirlo discontinuo non è sbagliato ma nemmeno così esatto, perché la discontinuità, la violenza con cui Abel Ferrara partorisce i suoi film per poi quasi liberarsene è oramai parte integrante di ciò che è lui come cineasta. Ed in questo senso, forse, nessuno più e meglio di lui era indicato per accostarsi ad una figura che ha vissuto in maniera non meno tormentata la propria esistenza, anche e soprattutto in relazione alla sua opera, ovvero Pasolini. Con in comune, entrambi, di essere stati ugualmente prolifici, in un modo che altri artisti magari non meno afflitti dei nostri, nonostante tutto sconoscono.

Il film si chiude su uno degli stilemi più classici del cinema di Ferrara, cioè il drastico, feroce accostamento di due opposti: alla scena dell’omicidio di Pasolini (caduta verso il basso) fa il paio un’altra fittizia in cui due suoi personaggi d’invenzione salgono le scale verso il cielo (risalita verso l’alto). Lascia sempre un tantino esterefatti prendere coscienza di quanto un cinema così viscerale possa al tempo stesso essere così “calcolato”. Pasolini, non meno che altri film del regista, è di quelli che vanno studiati, che non sono concepiti per travolgere. Emotivamente, ferma restando l’affezione per il vero Pasolini, la versione ferrariana risulta clamorosamente sterile, da qualunque prospettiva la si guardi. Nessuno può negarlo. Non si tratta della sua presunta visionarietà, o della struttura così autonoma e tutt’altro che ortodossa. Nossignore. Pasolini è quasi un omaggio ad un maestro, il cui discepolo coltiva un rispetto (se non un amore) così assoluto che il modo per dimostrarlo non può che essere personale, spiccatamente personale. Dunque rischiosamente poco comprensibile.

Ed in fondo Ferrara si ama o si odia proprio per questo motivo, ossia per la sua ostinanta indipendenza, da tutto e da tutti, non alla maniera dell’artista genialoide che si erge al di sopra degli altri; più che altro a mo’ del fanciullo cui non puoi imporre cosa deve smuovere la sua curiosità, cosa accedenderla, né imporgli una via e solo quella per rapportarsi alle faccende che più lo infiammano. D’altronde il regista di King of New York s’interroga da tempo su questioni calde e centrali come quelle evocate in Pasolini: l’Arte come sublimazione di tutto ciò che ci deriva dall’esistenza; stabilire quale sia l’ordine gerarchico tra il vissuto ed il raccontato; oppure ancora il dovere di essere autentici prima di ogni altra cosa, costi quel che costi. Tutti discorsi che nel caso di Ferrara non sono rimasti sulla carta, perché egli stesso li sperimenta da tempo ed in maniera trasversale, incarnati come sono nella sua vita.

Pasolini

Questo è il punto della recensione in cui qualcuno si starà chiedendo il perché di così tanto spazio all’autore, ché quel che conta è sempre il film. Vero. Non abbastanza nel caso di questo regista però. Perché in qualche modo l’abbiamo evidenziato: Pasolini è un’opera indomita e per questo deve pagare un pedaggio molto amaro. Difettoso sin dalle fondamenta per quanto sia, comunque, nessuna delle sue tare congenite riesce a spegnere il fuoco da cui è arso. Perché, specie dopo averci rimuginato sopra un po’ meglio, l’ardore che anima Ferrara nel girare questo film risulta a dir poco abbagliante. Il che, lo ripetiamo, non lo rende più compiuto neanche un po’, ma per chi adora il cinema ed i suoi eroi, davanti ma specialmente dietro la macchina da presa, tutto ciò non può significare nulla.

Per questo, se all’inizio le giustificate critiche su un Dafoe tanto simile all’apparenza quanto lontano in tutto il resto da Pasolini, posso essere accolte, un istante dopo c’è da dire: «fermi un attimo… non è questo il punto». Ma certe considerazioni non vadano rispedite al mittente in maniera sprezzante; perché è vero, gli switch linguistici dall’italiano all’inglese sono alienanti: due personaggi italiani si salutano e scambiano due parole nella nostra lingua, dopodiché si rivolgono a Dafoe/Pasolini e parte l’inglese, per poi uscirsene in maniera estemporanea con un altra frase in italiano. Così come ancora più aleatorie ci paiono le critiche alla solita, ritrita “mancanza di una storia”. Quale che sia il significato di tale appunto, i difetti stanno in ogni caso altrove.

Per esempio nella pressoché totale impossibilità di creare un ponte con anche solo uno dei personaggi, che sia questo il protagonista o un semplice comprimario; l’esplicita fellatio iniziale che nemmeno successivamente viene collocata come si deve; il tentativo, altrettanto maldestro, di ricreare la scena di una Sodoma in cui gay e lesbiche una volta l’anno copulano tra loro a fini procreativi, inscenando un pasticciaccio non da poco. E questi sono solo quelli che si palesano nitidamente davanti ai nostri occhi per ora – col tempo confidiamo di scovarne altri.

Ed allora cosa dire? Il Pasolini di Abel Ferrara è l’opera che più di ogni altra nella sua filmografia emana quella tensione che mescola e confonde l’Arte con la vita, sbattendoci in faccia la paradossale condizione di chi vive a cavallo delle due. Il problema è quando una sfocia nell’altra e viceversa, creando quella miscela in virtù della quale è anche solo concepible un’opera come Pasolini. Che in quanto film di finzione è essenzialmente mediocre, forse addirittura pessimo. Come cinema, invece, si tratta di uno dei discorsi più lucidi quanto ai limiti del mezzo, di chi se ne serve o di chi semplicemente ne fruisce. E non pensiate che chiunque giri un filmaccio possa aspirare a tanto, anche poiché l’unico che di recente sia riuscito nel tentativo di approntare un discorso del genere ed imprimerlo su un film con analoga intensità è stato il Jean-Luc Godard di Adieu au Langage 3D, visto e premiato in occasione dell’ultimo Festival di Cannes.

Perché di film che ci parlano di certe cose in giro non ne trovate, anche ma non solo perché sono in pochi a potersene permettere il lusso. In maniera camuffata, ci siamo, ma a questo punto della storia, in un momento di transizione come quello che sta attraversando il cinema (e noi con lui) serve qualcuno che quantomeno si sforzi di affrontare simili mostri, mettendoci oltretutto la faccia. Allora delle due l’una: o abbiamo davanti uno scherzo, peraltro di cattivo gusto, oppure si tratta di un’opera quintessenzialmente geniale, proprio perché sin troppo al di là della capacità di controllo da parte di colui che l’ha creata. Noi la nostra scelta l’abbiamo fatta. Almeno per ora. Ad altri la palla.

Voto di Antonio: 6
Voto di Federico: 5
Voto di Gabriele: 6

Pasolini (Belgio, Italia, Francia, 2014) di Abel Ferrara. Con Willem Dafoe, Maria de Medeiros, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande, Roberto Zibetti, Adriana Asti, Valerio Mastandrea, Tatiana Luter, Guillaume Rumiel Braun, Diego Pagotto e Salvatore Ruocco. Nelle nostre sale dal giovedì 25 settembre.