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Barry Lyndon di Kubrick torna in sala per i suoi quarant’anni

Oggi, 12 gennaio, torna al cinema in versione restaurata Barry Lyndon di Stanley Kubrick. Generalmente il meno amato, forse, ma senz’altro fra i più emblematici nell’ambito della seppur contenuta filmografia del regista. Parliamone, anche senza pretendere di farci stare tutto

pubblicato 12 Gennaio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 19:02

Barry Lyndon offriva l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte, presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico. – Stanley Kubrick

Da un lato del tavolo immaginate un critico cinematografico, qui nei panni di intervistatore e cronista; francese, all’incirca sui 50. Dall’altro lato, invece, un uomo con gli occhi sgranati eppure affabile, con quella barba folta e la capigliatura spettinata alle due estremità del volto, tese a contenere uno sguardo penetrante, raro. Il primo, l’intervistatore, è Michel Ciment, mentre il secondo, ossia l’intervistato, è il misterioso e sfuggente Stanley Kubrick.

Stanley ha fretta, sebbene non lasci trasparire nulla della sua impazienza, scandendo ogni parola e finanche ogni sillaba con dolcezza, ponderando bene quei pensieri che sa dovranno bastare per altrettanti anni quanti ne sono trascorsi dall’ultima volta che ha rilasciato un’intervista. Una chiarezza espositiva, una semplicità, le sue, che non si direbbero, per via di quei film così enigmatici, ampi come pochi casi nella storia del cinema – tanto che siamo ancora qui a discutere sul cosa e sul come, oltre a non essersi davvero arrestata la produzione di libri inerenti alla sua opera.

REALISMO

Di Barry Lyndon è stato detto che è una «pinacoteca da undici milioni di dollari». Tanti ce ne sono voluti per girare, per due estenuanti anni, uno dei suoi film più misconosciuti e fraintesi tra quelli del post-2001. Un film che anzitutto tradisce l’interesse accesissimo di Kubrick per quel periodo storico; ossessione che avrebbe dovuto culminare con l’imponente Napoleon, da alcuni definito «il più grande tra i film che non hanno mai visto la luce». Kubrick stesso ammise di avere irrimediabilmente rovinato, lui ed i suoi collaboratori, interi volumi d’Arte per raccogliere il materiale che gli serviva per Barry Lyndon.

Una cura maniacale, espressione che non è mai andata troppo a genio al nostro, poiché verso le sue opere si è sempre sentito in dovere di non tralasciare nulla, dato che nulla era poco importante, tutto dando e mai nulla chiedendo in cambio. Un patto tacito, che in questo caso specifico lo portò addirittura a farsi costruire degli obiettivi “su misura” dalla Cinema Products Corp., così come racconta appassionatamente l’allora presidente Ed Di Giulio. Celebre è per esempio la scelta di optare per obiettivi veloci, non esattamente così diffusi all’epoca, per catturare la luce adatta usando per lo più la luminosità derivante dalle candele – parliamo chiaramente delle scene in interni.

Ad ogni modo, così si spiega l’attenzione spasmodica per il dettaglio, perfettamente in linea con l’indole di Kubrick, che nasce fotoreporter presso la rivista Look. La sua domanda dovette essere: «quali mezzi ci documentano visivamente, in maniera quanto più aderente alla realtà che fu, quel periodo lì?». La risposta è evidente: i dipinti. Come abbiamo già accennato, il regista venuto dal Bronx dilaniò intere enciclopedie d’Arte, strappando tutto ciò che sarebbe servito alla causa – successivamente dichiarò di non essersi sentito in colpa poiché quei volumi erano tutti in commercio all’epoca.

E non serve un occhio smaliziato per constatare l’aderenza, pressoché assoluta, con tanti quadri risalenti al XVIII secolo. Kubrick segue addirittura le mode (tecniche, soggetti etc.) del tempo, non disdegnando suggestive panoramiche e composizioni ardite, che sullo schermo fanno più teatro che cinema. Senza però mai abdicare al mezzo che tratta, escogitando perciò manovre più che sensate.

Qui scompone, si diverte ad immergersi in quei dipinti che così facendo quasi dissacra, poiché in quella fluidità non c’è armonia; lasciando perciò intendere che un conto è ciò che di quel periodo si è voluto trasmettere, altro è immergersi nelle vicende di un periodo il cui culmine è (come la fine del film) il 1789, anno della Rivoluzione Francese. E quand’è che Kubrick ci trascina a forza nel bel mezzo dell’azione? Sistematicamente in quelle scene che evocano o in cui si consuma violenza: la lotta a torso nudo col compagno d’armi inglese; il pestaggio di Lord Bullingdon (Leon Vitali); il tentato suicidio di Lady Lyndon (Marisa Berenson), etc.

Diversa l’intensità, ma anche il tipo di violenza che riscontriamo in scene chiave come il duello con Lord Bullingdon, così come l’avanzata dell’esercito di sua Maestà sul campo di battaglia, mentre i soldati cadono come birilli sotto i colpi della fanteria nemica: trattasi di riti, o forme di violenza ritualizzata, ed in quanto tali, “sacri”. Ciò che infrange la sacralità del rito, ovvero ogni atto o gesto che si pongono al di fuori di tali logiche, rientra nel regime del proibito o per lo meno dell’inaccettabile. Perciò Kubrick passa dalle panoramiche, o dai suggestivi campi lunghi, ad una macchina da presa a mano che segue da vicino ciò che accade, in maniera peraltro scomposta.

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PITTURA

Barry Lyndon è anche un film di entra-ed-esci: entrare ed uscire mediante la prospettiva. In questo senso Kubrick si pone al di là delle convenzioni, perché il suo non è un cinema strettamente narrativo, come d’altro canto evidenzia Sandro Bernardi quando afferma che SK «racconta storie per mostrare immagini, non mostra immagini per raccontare storie».

Perciò è inutile chiedersi, seguendo certi schemi più che consolidati già ai tempi in cui questo film veniva girato, come mai un carrello all’indietro (come nel caso di Lord Bullingdon che torna per “esigere soddisfazione” dal patrigno) o i frequenti zoom in entrambe le direzioni: in quest’ultimo caso, specie in relazione agli zoom all’indietro, tale misura non serve ad alcunché, o quantomeno non è lì per generare suspense, in attesa di svelare un dettaglio o un elemento rilevante, come potrebbe accadere con un Hitchcock – a tal punto l’interesse verso certe logiche è lontano dalle intenzioni di Kubrick, che quest’ultimo adotta il narratore onnisciente per colmare quei passaggi che, diversamente, avrebbero oltremodo appesantito il dipanarsi della storia. In più punti, infatti, il narratore anticipa quanto sta per accadere, talvolta addirittura con cospicuo anticipo, come poco dopo l’inizio, quando emerge che la storia di Redmond si concluderà male per lui.

Se poco sopra abbiamo parlato di scomposizione, la parola chiave in questa parte della nostra disamina è quindi composizione. Kubrick ha mostrato in tutti i suoi film la sua predilezione per immagini composte in un certo modo, dato che per lui, come ebbe modo di dichiarare a Jack Nicholson, sullo schermo non andava trasposta la realtà ma la fotografia della realtà. E se è vero quanto asseriva Moholy-Nagy («La fotografia senza composizione è notizia»), ne deriva che tale aspetto fosse preminente e che, dunque, trovasse in Barry Lyndon un terreno più che fertile su cui lavorare.

Non si può infatti reputare tutto ciò mero orpello, quasi che Kubrick fosse più interessato all’estetica, ad immagini “belle”, che a tutto il resto. Guardatevi attorno e troverete che sono stati pochi i casi in cui tutto abbia concorso alla narrazione, e al cuore di questa, come i costumi, i colori, le pose, insomma tutto ciò che c’è di puramente visivo, il non-detto. Nemmeno a farlo apposta, guarda un po’, una di queste rare occasioni, paragonabili magari non quanto al risultato ma senz’altro quanto alle intenzioni e all’impegno, si riscontra ne La presa del potere da parte di Luigi XIV di Roberto Rossellini. Quasi nessun altro ha condiviso il medesimo amore per il realismo sul grande schermo, che quasi mai coincide con realtà, se non in maniera accidentale.

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CERCHIO

Ancor più che un film in costume, Barry Lyndon è senz’altro un film in maschera. Maschere sono quelle che indossano o tentano di indossare un po’ tutti nel corso di questa storia che parla di un’ascesa prima e di una discesa poi. La struttura circolare, tanto cara già al Kubrick di Arancia meccanica, si ripropone qui con un’intensità non meno drammatica, nonché tre atti suddivisi in maniera esplicita. Redmond Barry è un ragazzo irlandese dalle ambizioni sconfinate, prima su tutte quella di accampare diritti sull’affascinante cugina Nora. Finché un capitano dell’esercito britannico, Quin, non chiede la mano della giovane, promettendo di risolvere la pessima situazione economica in cui versa la famiglia.

Costretto a farsi da parte, a seguito di un raggiro, Redmond intraprende un viaggio che lo porterà dapprima ad essere derubato di tutti i suoi averi (fuorché gli abiti che indossa), salvo poi arruolarsi nell’esercito di Sua Maestà. Qui incontra un vecchio amico, quel capitano Grogan che in Irlanda aveva apprezzato l’ardimentoso spirito del giovane, prendendolo perciò sotto la sua ala protettiva. La morte del capitano, per mano dell’esercito francese, oltre che il desiderio di cambiare aria e l’indole avventurosa, spingono il giovane soldato a disertare. È il capitano Potzdorf, dell’esercito prussiano, a “smascherare” (per l’appunto) Redmond, prospettandogli due possibilità: o la pena per i disertori, o l’arruolamento. Il nostro protagonista sceglie quest’ultimo.

Dopo essersi distinto in battaglia, Redmond viene incaricato di sorvegliare tale Chevalier de Balibari, un nobile che bazzica le corti di mezza Europa. In un impeto di nostalgia, Barry si scopre, rivelando la sua vera identità; gesto che lo Chevalier accoglie con commozione, architettando per lui la fuga e destinandolo a ben altri contesti. Scappati che sono dal controllo dell’esercito di Prussia, i due si mettono in società e diventano dei bari professionisti, sfilando soldi ai più facoltosi tra i giovani rampolli del Vecchio Continente. È qui, nel corso di una sessione di gioco, che Barry incontra l’avvenente Lady Lyndon, moglie di Sir Charles, ben più anziano di lei.

Infilatosi sotto le coperte della signora, e deceduto l’oltremodo longevo Sir Charles, la parabola ascendente di Redmond tocca il suo culmine: convola a nozze con la vedova Lyndon, assume il cognome del suo predecessore e prende possesso della sua cospicua fortuna. L’unico inconveniente sta in Lord Bullingdon, nato dalla precedente relazione di Lady Lyndon; con lui il fido reverendo Runt, da subito ostile a questo matrimonio, reputando Barry niente più che un viscido arrampicatore sociale.

Ha qui inizio la parabola discendente, che vede l’oramai sir Lyndon dilapidare le sostanze di sua moglie, una sempre più rassegnata e austera Lady Lyndon, che, oltre all’indifferenza, deve anche sopportare la reiterata e per niente celata infedeltà del marito. Tuttavia nasce Bryan, verso cui Barry dimostra un attaccamento ed un amore sconfinati, tanto che la puntuale voce fuori campo non si esime dall’evidenziare che tutto si possa dire di Redmond fuorché che non fosse un padre esemplare.

Emerge a questo punto l’esigenza di un titolo nobiliare che, per così dire, renda ufficiale nonché duratura la posizione acquisita da Redmond. Il quale si industria in tutti i modi per ingraziarsi chi può condurlo all’archiviazione di siffatta pratica, ciliegina sulla torta di una “carriera” brillante, per quanto non esente da difficoltà e amarezze. Non ultima, quella che lo vede estromettersi per sua stessa mano da quel mondo così ovattato che è la nobiltà britannica, dopo avere platealmente malmenato un provocatorio Lord Bullingdon, a seguito di un exploit notevole.

Tuttavia è la morte del piccolo Bryan, inviso al fratellastro Bullingdon, per via di una caduta da cavallo (lo stesso regalatogli, tra sotterfugi e cerimonie, dal padre), a segnare la fine del sogno di Redmond Barry. Caduto in disgrazia, quest’ultimo non fa che sprofondare, sino a quel duello così strenuamente preteso da Bullingdon, che vede l’ultimo dei Barry auto-infliggersi il castigo definitivo: anziché sparare al goffo figliastro quando ne ha la possibilità, il rassegnato Barry Lyndon sceglie di sprecare volutamente il suo colpo. Ferito da quello successivo, scoccato da Bullingdon, Barry perde una gamba per via di un’amputazione. Le sue vicissitudini si chiudono dunque con un vitalizio che la famiglia Lyndon gli concede a patto che se ne torni a casa, la stessa dalla quale era partito quel ragazzo irlandese sfrontato e carico di sogni irrealizzabili. Solo allora il film può chiudersi sulle seguenti parole: «Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri ora sono tutti uguali». Il cerchio si chiude.

Ecco la lista delle sale dove vedere il film.

Bibliografia e riferimenti: Kubrick e il cinema del visibile, Sandro Bernardi (Ed. Il Castoro) – Kubrick, Michel Ciment (Ed. Rizzoli) – archiviokubrick.it

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