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The Pearl Button: recensione in anteprima del documentario in concorso a Berlino 2015

Festival di Berlino 2015: dopo Nostalgia de la Luz torna il cileno Patricio Guzmán con The Pearl Button. Un documentario che parte dall’elemento dell’Acqua, ripercorre l’arrivo dei colonialisti inglesi in Patagonia, e arriva ai desaparecidos di Pinochet. Un lavoro che invita filosoficamente ad andare ‘oltre’.

pubblicato 9 Febbraio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 18:20

L’oceano contiene una miriade di storie dell’umanità. Il mare trattiene le voci della Terra e di coloro che vengono dallo spazio. L’acqua riceve impeto dalle stelle e lo trasmette alle creature viventi. L’acqua, nella lunga costa del Cile, trattiene anche i segreti di due misteriosi bottoni ritrovati nel fondo dell’oceano…

Il Cile vanta 2670 miglia di costa e l’arcipelago più lungo del mondo, e vi ci troviamo vulcani, montagne e ghiacciai. Lì si possono ritrovare le voci degli indigeni della Patagonia, dei primi navigatori inglesi che giunsero sulla costa e di tutti i prigionieri politici che hanno segnato la Storia del paese.

Sì, in un qualche modo l’acqua ha una sua memoria, e il nuovo documentario del cileno Patricio Guzmán cerca di far vedere che ha anche una ‘voce’. Ricomincia in qualche modo dal suo fortunato Nostalgia de la Luz, per ripercorrere una Storia nazionale fatta di sangue e dolore, persone morte ingiustamente e un ricordo che non deve svanire nel nulla: anche perché non può.

C’è chi dice che The Pearl Button è meno bello del film precedente: sarà. C’è anche chi dice che l’assunto di base è fin troppo forzato: sarà vero pure questo. Però accidenti se a questo lavoro non mancano idee e fascino, tematiche importanti affrontate con l’ingenuità non di chi non conosce e non ‘sa’, ma di chi vuole andare oltre ai fatti, provando a dare una dignità ‘filosofica’ agli avventimenti storici.

La domanda di base, in fondo, è piuttosto concreta: com’è che con la sua vastità d’acqua il Cile non è riuscito a crearsi una propria identità economica? Le risposte sono scritte nella Storia di cui prima, ma la direzione che Guzmán intraprende è a suo modo molto più elegiaca e lirica di quello che si potrebbe pensare con una materia del genere.

Si comincia dall’Acqua, si diceva. Il documentario inizia proprio da lì, da quell’elemento, con una goccia racchiusa in un quarzo. Continua quasi come un prodotto National Geographic dedicato alla costa cilena e alle sue bellezze naturali, contornate da immagini dello spazio (sì, qualcosa che si avvicina a Terrence Malick…). Intanto c’è, come in Nostalgia de la Luz, la voce over del regista.

Non avrà lo stesso timbro irresistibile e unico di Werner Herzog, ma la filosofia di Guzmán un po’ richiama il regista tedesco. Perché Guzmán non si ferma di fronte a nulla e guarda al di fuori della Terra, verso le stelle e lo spazio, verso altri pianeti, verso meteore che portano acqua e cambiano il ciclo di un pianeta, verso altri possibili orizzonti che aprondo domande e domande e domande.

Perché lo fa? Perché si chiede se sia possibile che ci sia un ‘eterno ritorno’. Che è forse quello ‘storico’, degli errori che l’essere umano continua a ripetere nonostante si sia macchiato le mani di sangue troppe volte. Prima i colonialisti inglesi, che avevano ‘rapito’ un indigeno rinominato Jemmy Button (perché comprato in cambio di un bottone…), poi i desaparecidos dell’era di Pinochet.

Qui in molti hanno trovato una forzatura nel dover filosofeggiare troppo per collegare, come fossero pezzi di un puzzle, avvenimenti storici che sì fanno parte della Storia nazionale, ma che sono anche ben distanti tra loro. Eppure a me sembra che la filosofia di Guzmán non solo sia affascinante di per sé, ma abbia anche senso, se la si legge secondo la ciclicità degli orrori che l’Uomo continua a commettere.

Se si comincia dall’Acqua e dalla Natura, per poi continuare con il colonialismo in Patagonia, si arriva alla parte dei desaparecidos non capendo molto bene come si sia arrivati fino a lì. Eppure da quel momento tutto comincia ad avere un senso e, in modo molto simile al cinema di Joshua Oppenheimer, assume tonalità davvero sconvolgenti, visto che non ci viene risparmiato neanche il metodo con cui venivano buttati nell’oceano i prigionieri politici.

Un’esperienza che viene arricchita anche da una serie di interviste a discendenti degli indigeni e a sopravvissuti di Pinochet in stile talking heads. Un documentario che mescola assieme tante possibilità diverse del mezzo e invita a non avere limiti. Non sarà mica un caso se in fondo all’oceano è stato ritrovato un altro bottone come quello con cui era stato comprato Jemmy Button, no?

Voto di Gabrele: 8
Voto di Antonio: 7

The Pearl Button [El Botón De Nácar] (Cile / Francia / Spagna, documentario 82′) di Patricio Guzmán.

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