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Humandroid: recensione in anteprima

Neil Blomkamp allestisce un potpourri di tematiche alle quali attinge con troppa timidezza, spaziando dalla robotica al transumanesimo per raccontare una storia che parla anche (ma non solo) di amicizia. Troppo per un solo progetto in cui le parti non si legano a dovere

pubblicato 2 Aprile 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 16:58

Quante idee, tonalità, intuizioni in Humandroid, senza che anche solo due di queste riescano ad amalgamars. L’ultimo film di Neil Blomkamp da un lato conferma l’amore del regista sudafricano per lo sci-fi e per tutta una serie di mondi possibili o comunque ipotizzabili; dall’altro, meno edificante, manifesta le difficoltà dello stesso di tenere il passo con le tematiche che evoca, in un calderone che mescola tanto, troppo.

Gli ammiccamenti sono difatti molteplici, il che non è chiaramente un male di per sé: Blade Runner e Robocop per restare al cinema, ma anche Pinocchio di Collodi. Citazioni che contribuiscono più che altro a farsi un’idea di quanto complesse siano le dinamiche trattate, che nel film vengono invece ridimensionate all’inverosimile, pressoché vanificate. L’innegabile buon occhio di Blomkamp si ferma ad un ritmo incalzante, ad alcune scene d’azione costruite con criterio ma non sorrette da un impianto narrativo convincente.

Non si tratta infatti di credibilità, poiché, pure all’interno dello scenario e relativa storia costruita in Humandroid, è davvero difficile riscontrare un certo equilibrio. Un film senza baricentro insomma, sia questo emotivo o anche solo logico, in cui si fatica a portare avanti la vicenda senza rimanere confusi, sempre un po’ scollati. S’intuisce un’idea, che è quella di dipingere un mondo alla deriva, disumanizzato, abbandonato a sé stesso; e per questo si lavora anche sui dettagli più piccoli, come il grattacielo alla cui vetta si legge il nome di un operatore telefonico: colori sfocati, parti del maxischermo che non si accendono, sintomo di uno stato d’abbandono che la dice tutta.

Johannesburg è in preda ad un’onda di criminalità mai vista. La polizia locale registra continue perdite di agenti impegnati in questa lotta senza esclusioni di colpi; finché non si stabilisce che la misura è colma: allora la Tetravaal, grazie al brillante Deon Wilson (Dev Patel), tira fuori dei robot il cui unico scopo è quello di fornire supporto e combattere i «cattivi». Nello stesso ufficio di Deon lavora però anche Vincent Moore (Hugh Jackman), ingegnere a capo del progetto MOOSE, incentrato su un mecha comandato in remoto da un altro essere umano mediante casco neurale. Si dà il caso però che l’occupazione di Deon non si limiti agli orari di lavoro; quest’ultimo ha infatti elaborato un programma inteso a dotare i suoi robot di un’intelligenza artificiale, consentendo loro di provare emozioni e pensare come un normale uomo.

Solo solo leggendo questa descrizione vengono fuori tutta una serie di tematiche dal dibattito non aperto, di più. L’anno scorso si cimentò in qualcosa di simile Wally Pfister col suo Transcendence, altro titolo promettente che però si è scontrato più o meno sui medesimi scogli. La tesi di fondo è che l’anima, qui chiamata coscienza, sia «trasferibile» da un qualunque device a un altro, mediante apposito supporto, sia esso una chiavetta USB o un hard disk più elaborato. Ad ogni modo, per arrivare a quel punto Humandroid di tempo ce ne mette. L’idea è infatti quella di partire da una sorta di dimostrazione, per poi esporre la tesi.

Classica struttura in tre atti, è il secondo quello che avrebbe dovuto dare consistenza all’intera opera, manifestando invece le carenze maggiori. Chappie è il modello di poliziotto-robot scelto per l’innesto del programma di Deon, il quale sa che, una volta attivo, Chappie sarà come un bambino appena nato, bisognoso di cure così come di educazione. Non volendosi soffermare più di tanto su tale aspetto, onde evitare di trasformare il film in un trattato comportamentale, Blomkamp tuttavia gestisce non bene questa fase, per lo più incentrata sulla «crescita» della creazione di Deon. Basandosi magari sulla non citata teoria della singolarità (pericolosa sul grande schermo, da quel che ci pare di vedere), per cui un cambiamento così rapido e repentino lo si può spiegare attraverso il concetto di crescita esponenziale.

Ma ci stiamo addentrando in affari che non ci riguardano. Affidato involontariamente alle cure di un gruppo di gangster, Chappie comincia a preoccuparsi della prima cosa che distingue un essere vivente da qualunque altro, ossia la sua sopravvivenza; il discorso si fa alto nel momento in cui si rende conto che la sua batteria (?) non può essere sostituita e che l’unico modo è quello di trasferire la sua coscienza dentro a un altro corpo.

Ma si tratta di argomenti che affiorano qua e là in maniera scomposta. Il sottobosco della malavita descritto in Humandroid è sin troppo caricaturale, popolato da freaks dai gusti oltremodo particolari, i quali si atteggiano a Tony Montana o più facilmente venuti fuori dal ghetto. Reietti ma con un cuore, almeno alcuni di loro, mentre altri sono completamente fuori di testa; vivono in un edificio diroccato e abbandonato, mentre cercano di stare a galla dove vigono le leggi della «strada». Altro strato sovrapposto che però non si lega affatto.

Poco sopra abbiamo citato Pinocchio non a caso, per via di certe scene, certi interi blocchi in cui una voluta ingenuità prende il sopravvento: tutto l’apprendistato di Chappie è attraversato da questo tenore, che effettivamente finisce con l’essere disorientante. Specie se poi, un istante dopo o giù di lì, veniamo sottoposti ad un Hugh Jackman in pantaloncini e calzettoni mentre esorta i colleghi di ufficio ad unirsi a lui la domenica per andare in chiesa. Moore, ovvero il personaggio di Jackman, è per l’appunto uno degli elementi più emblematici, in negativo, del film: un villain intriso di luoghi comuni, a partire dal vestiario, la cui supposta fede diventa radice del suo odio verso gli androidi. Un personaggio insomma che per non far sorridere, e per i motivi sbagliati, non aveva bisogno di un grande attore ma di un vero e proprio miracolo.

Certo, i veri limiti stanno altrove, ossia al di là dei difetti. Perché tirare nuovamente fuori dal cassetto il tema di un’intelligenza artificiale, o di un clone o che so io, bramosi di «vita», e che per ottenerla sono disposti a tutto, come dei normali esseri umani, servono delle vie accattivanti per raccontarne. Niente o quasi di questo si riscontra in Humandroid, la cui semplicità ahinoi muta presto in superficialità, mentre ogni singola componente pare remare strenuamente in senso contrario alla riuscita di un progetto che, sulla carta, avrebbe meritato ben altra fortuna. Speriamo bene già col prossimo Alien.

Voto di Antonio: 4
Voto di Federico: 2

Humandroid (Chappie, USA, 2015) di Neill Blomkamp. Con Sharlto Copley, Dev Patel, Ninja, Yolandi Visser, Hugh Jackman, Sigourney Weaver, Brandon Auret, Johnny Selema, Anderson Cooper, Maurice Carpede, Jason Cope, Kevin Otto, Chris Shields e Jose Pablo Cantillo. Nelle nostre sale da giovedì 9 aprile.