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Jurassic World: recensione in anteprima

Si torna a Isla Nublar, dove sulle ceneri del sogno utopico di John Hammond nasce Jurassic World, il parco a tema più ambizioso mai creato. Visivamente notevole, quello manca a questo quarto capitolo della serie è un’anima

pubblicato 10 Giugno 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 15:07

Una gestazione che definire travagliata è dire poco. Ad un certo punto sembrava che la quarta iterazione della saga potesse non uscire più, tanto che cambiare quel titolo (Extinction) è sembrata più una mossa scaramantica che altro. Script che si sono susseguiti uno appresso all’altro, mentre a più riprese si è gridato al nome di Spielberg, il quale evidentemente voglia di dirigere questo film non ne ha mai avuta.

Jurassic World si presenta perciò a noi tutti come il risultato di un processo fatto di rinvii, tentennamenti e indecisioni, che alla luce del film si avvertono eccome ahinoi. Il parco non è più un parco bensì un “mondo”; il sogno di Hammond pare essersi realizzato, ossia quello di consegnare all’uomo un posto dove grandi e piccini possano osservare da vicino creature di un’altra epoca, troppo lontana, troppo selvaggia. Eppure quel “mondo” impressiona molto meno di quell’inedito parco, quest’ultimo più grande, più autentico.

Usciti dalla sala abbiamo subito pensato che questo quarto capitolo è un po’ come Jurassic Park che “cannibalizza” sé stesso, solo fuori tempo massimo. Idea che da allora non ha smesso di punzecchiarci, perché in fondo questo è Jurassic World. Un tentativo di far rivivere una saga che è poi il suo primo, epocale capitolo, proprio “a spese” di quest’ultimo. Si opta infatti, ed in più frangenti, per un fan service che non stona ma che al tempo stesso non incide. Non ci riesce perché, di fondo, a questo film manca una cosa più di ogni altra, ovverosia un’anima.

Provateci pure a scavare in mezzo a quella congerie di prestante CGI: purtroppo non la troverete. Alcune intuizioni, che già nei vari trailer non sembravano felici, non migliorano nemmeno inserite nel contesto, come quella che ci mostra dei Velociraptor addomesticati, una trovata anacronistica e finanche un po’ ruffiana, tesa a suscitare simpatia senza curarsi affatto di tutto il resto. Insomma, con la scusa della fantascienza si parte per la tangente; ecco allora anche l’Indominus Rex, l’ibrido creato interamente in laboratorio, letale più di qualunque altro dinosauro predatore mai esistito.

A riguardo si potrebbe approntare un discorso che prende di mira proprio la presenza di questa nuova creatura, solo che dovremmo in pratica svelare la fine. Proviamo perciò, con cautela, ad annotare due/tre cose cosicché pure chi vorrà leggerci senza aver ancora visto il film potrà farlo. Al cuore di Jurassic World giace infatti una critica nemmeno troppo velata all’ingerenza umana sulle specie animali, ovvero alla sperimentazione, con relative ripercussioni interne alla specie ed esterne, ossia in natura. Il T-Rex con gli steroidi, nonché vero protagonista del film, è infatti un ibrido che rappresenta in non plus ultra dell’ingegneria genetica, sebbene ciò, a parere di chi scrive, non giustifichi in toto le capacità dell’Indominus, antropomorfizzato all’inverosimile quanto a facoltà intellettive, dato che escogita strategie e le porta a termine con una precisione francamente forzata. Tuttavia è proprio il finale a dirci da quale parte si pongono gli autori, nel momento di massimo fan service, quando la natura, per quanto “ricreata” in provetta, ha la meglio su ogni qualsivoglia sofisticazione. Un argomentare che ha addirittura qualche affinità con talune tematiche ricorrenti in certi cinecomics degli ultimi anni, ma che funzionano più in ottica accademica; lo spettatore, specie alla prima visione, non è chiamato a sviscerare certe cose. Piuttosto il film lo dovrebbe accompagnare dall’inizio alla fine sull’onda dello spettacolo, che anche nei passaggi più riusciti del film riesce a coinvolgere fino a un certo punto.

Chiusa parentesi, nel film Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) è la responsabile operativa del parco, costruito sempre nella famosa Isla Nublar. Un giorno Claire riceve i propri nipoti, la cui presenza si rivela destabilizzante per una con l’agenda fittissima ed attenta a mostrarsi impeccabile tanto nelle valutazioni quanto nella gestione. Tutto procede a meraviglia. Le migliaia di persone che hanno staccato il biglietto si divertono, le bibite costano sette dollari, triceratopi e brachiosauri sono dolcissimi. Certo, c’è la questione della nuova attrazione, l’Indominus per l’appunto, che va discussa con gli sponsor prima di essere mostrata al grande pubblico, sebbene sia indispensabile convincerli dato che gli incassi hanno risentito di una leggera flessione.

Siamo lontani dallo storico «non si bada a spese» del vecchio John Hammond; oggi bisogna far quadrare i conti, come la stessa Claire sottolinea, visto che per mandare avanti una realtà simile le entrate sembrano non bastare mai a coprire i costi. Tutti piccoli accorgimenti che segnalano il tentativo di collocare la storia in un preciso momento, quello che stiamo vivendo, quasi voler sopperire ad una delle componenti mancanti di questa saga che per questo motivo saga non è, ovvero una sua “mitologia”.

Forse anche per questo si spiega una prima parte apatica, che nel legittimo interesse di iniziarci alla vicenda fatica però ad accattivare. Ologrammi, misure di sicurezza avanzate, insomma una veste generalmente più in linea coi tempi. Manca però la costruzione lenta e meticolosa di quel momento che sostanzialmente fa svoltare il film: la comparsa dell’Indominus Rex. E quando arriva passa perciò quasi inosservata, scarica di quell’enfasi che mai ci saremmo aspettati pari a quella del primo T-Rex, ma che in fondo viene strutturata in modo simile, con la bestia che in modo visibilmente costruito scappa dal recinto.

Questo quarto capitolo, infatti, se non altro ci conferma quanto sia aleatorio continuare a spingere su un brand il cui primo, fortunato esperimento rappresenta un centro gravitazionale dal quale non ci si sposta. Tutto ritorna sempre al 1993, a quel Jurassic Park la cui importanza trascende il film stesso. Questo è l’equivoco in cui per ben tre volte sono caduti gli autori, ossia nel credere che tale fenomeno fosse non dico replicabile ma anche solo riutilizzabile (fermo restando che Il mondo perduto è un buon film, a differenza del pessimo Jurassic Park III, il cui unico merito, se ve n’è uno, è quello di aver seriamente sdoganato lo pterodattilo). Ed invece no, perché Jurassic Park non è una pagina fondamentale in funzione di una serie, interna perciò al fenomeno, bensì un momento di assoluta rilevanza nell’ambito di un contesto ben più ampio, perciò esterno al brand, ovvero l’industria, il cinema stesso.

E questo per quanto concerne i limiti a priori. Di suo Jurassic World non denota uno sforzo a costruirsi, a dare consistenza ad un’idea già viziata. Tanta pregevole computer grafica ma non un personaggio che riesca a fare breccia, tanto che la parte finale suona per lo più come il soccorso della cavalleria. Manca pressoché del tutto quel senso di ostilità che si avvertiva finanche ne Il mondo perduto, cioè di un ambiente su cui l’uomo non può più esercitare alcun controllo. L’azione la si vive sempre a compartimenti stagni, come se la minaccia riguardasse un punto e quello soltanto. A questo si aggiunge una vena umoristica che rema contro la resa del film sotto questo aspetto, come se gli autori, all’apice del “terrore”, volessero sistematicamente tranquillizzare lo spettatore, di fatto sdrammatizzando ogni momento potenzialmente carico.

Allora capisci che qualcosa non va, che non basta fare della InGen e del suo rappresentate (Vincent D’Onofrio) un villain dimenticabile. Così com’è Jurassic World è più un lungo ed elaborato spot TV per pubblicizzare dinosauri giocattolo. Il che non sarà deprecabile, concesso… purché però vengano chiariti i termini del discorso. Senza star lì a discutere di trovate come quella di far correre Claire in tacchi per la foresta (con tanto di inquadratura in dettaglio verso la fine) o un finale da b-movie involontario, che ci sta in relazione al pubblico, blandito da un epilogo così liberatorio. Ma seppure intrattiene in alcuni, sporadici punti, non siamo nemmeno convinti che siano in tanti quelli capaci di salire su questa giostra. I bambini potrebbero divertirsi, andata. E forse, anche alla luce di quanto si è scritto, questo era il massimo a cui questo progetto potesse aspirare.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”7″ layout=”left”]

Jurassic World (USA, 2015) di Colin Trevorrow. Con Chris Pratt, Vincent D’Onofrio, Bryce Dallas Howard, Judy Greer, Nick Robinson, Jake Johnson, Lauren Lapkus, Katie McGrath, Irrfan Khan, B.D. Wong, Ty Simpkins, Eddie J. Fernandez e Brian Tee. Nelle nostre sale da domani, giovedì 11 giugno.