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God Bless the Child: recensione in anteprima

Uno dei film più piccoli dell’anno è anche uno dei più interessanti. God Bless the Child, diretto a quattro mani da Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck, racconta una giornata nella vita di cinque fratelli abbandonati dalla madre. Ne esce una deliziosa ‘tranche de vie’ come solo il cinema indie americano migliore sa fare.

pubblicato 11 Agosto 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 13:36

God Bless the Child è chiaramente un film sul movimento. I protagonisti del film di Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck sono adorabili, e forse addirittura anche chi non sopporta i bambini potrà riconoscerlo. Fatto sta che questi bambini non sono solo adorabili: sono a tratti esagerati, molesti, persino fastidiosi. Sono bambini: per questo appunto sempre in perennemente movimento.

Gli adulti, va da sé, non possono star loro sempre dietro. Non per scelta, ma perché il loro movimento è diverso. All’inizio del film, senza che manco la possiamo vedere in volto, la madre dei cinque protagonisti lascia il numero di telefono della nonna, prende l’auto e se ne va. Li abbandona, chissà per quanto, e chissà per quale motivo (chissà).

Harper, 13 anni, è l’unica ragazza del ‘mucchio’, e la più adulta. Mentre prova a telefonare più volte al cellulare della madre, non volendo arrendersi a chiamare la nonna, deve tenere a bada i quattro fratelli che, durante i 90 minuti del film, non stanno fermi un secondo. Non a caso la prima scena vede Elias, il più simpatico e folle del gruppetto, saltare senza fine su un tappeto elastico.

Ci sono poi Arri, che se le dà di santa ragione con Elias, Ezra, che pare il più dolce di tutti, e Jonah, il più piccolo. I cinque fratelli spendono un giorno d’estate assieme, con le loro ‘regole’ caotiche, nella California più rurale, tra giochi, dispetti, bagni ai (poveri) cani che si lasciano fare qualunque cosa, e movimenti incontrollati e incontrollabili.

Ci sono due scene chiave, oltre al finale (che è davvero la chiusa perfetta), in God Bless the Child. La prima è quella che vede Arri ed Ezra ballare davanti al televisore: si scuotono provando a imitare i passi di danza del video che stanno guardando, ma in pochi secondi il tutto si trasforma in una ‘scusa’ per muoversi ancora di più. O semplicemente continuare a muoversi.

La seconda è invece quella in cui Harper prova a far addormentare un Jonah piangente e urlante. La ragazzina non si scompone di un millimetro durante questo pianto urlato e ininterrotto: continua a raccontare la sua fiaba in modo impassibile mentre Jonah si scuote e grida a squarciagola. Qui mi pare che si veda benissimo e in modo cristallino il contrasto di movimento tra i bambini e gli adulti (Harper in fondo sta diventando adulta in fretta).

La scena non mi sembra affatto messa a caso, come potrebbe invece sembrare la precedente, che è assai simile a molte altre in cui i bimbi giocano. Qui Machoian e Ojeda-Beck decidono invece di giocare a carte scoperte e mostrare uno scarto che è colmabile solo con la pazienza infinita di Harper, forse già abituata a badare ai fratellini, mentre il pubblico può iniziare a sorridere per il pianto quasi ingiustificato e alla lunga fastidioso di Jonah.

I cinque sono davvero fratelli nella vita reale, e sono figli di Machoian e della co-sceneggiatrice Rebecca Graham. Così si spiega la chimica e la naturalezza che pervadono ogni scena, girata sempre con macchina a mano e con lunghi pianisequenza. L’effetto assai indie di verosimiglianza raggiunge momenti di intimità da vero ‘filmino di famiglia’, ma con una confezione molto consapevole nel suo essere no-budget. E l’uso della luce naturale è a tratti francamente bellissimo persino nella sua ‘povertà’.

Ogni scena ricomincia con un gioco, uno schiamazzo, una ‘bambinata’. E dopo un bel po’ ci si potrebbe anche chiedere il motivo del perché bisogna tirarla tanto per le lunghe: alla fin fine il film è costruito solo sui giochi dei quattro fratellini, e due o tre scene così basterebbero. Ma la tranche de vie ha un suo perché, non lascia mai indifferenti e trova un senso anche nei suoi difetti.

Gli ultimi minuti – da quando Harper si prende finalmente una pausa per stare qualche secondo da sola, fuori casa al buio, a ‘sentire’ il silenzio (che ha un suo suono!) – racchiudono il senso del film, e hanno la qualità di risultare commoventi senza dover usare nessun artificio narrativo di troppo. God Bless the Child è, infatti, un film che degli artifici non saprebbe che farsene: basta il movimento.

[rating title=”Voto di Gabriele” value=”8″ layout=”left”]

God Bless the Child (USA drammatico 92′) di Robert Machoian e Rodrigo Ojeda-Beck; con Harper Graham, Elias Graham, Arri Graham, Ezra Graham, Jonah Graham.