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Partisan: recensione in anteprima

Interessante debutto per Ariel Kleiman. Partisan ci conduce attraverso il percorso del piccolo Alex, da piccolo e fragile elemento di una comunità isolata a salvatore di sé stesso e di ciò che ha più caro

pubblicato 23 Agosto 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 13:22

Un cumulo di caseggiati popolari, stratificati, si stagliano distrattamente davanti alla sagoma di un uomo. È uno scenario di desolazione, abbandono, ma soprattutto, lo scopriamo più avanti, di isolamento. Partisan comincia su questa scena, corroborando la vicenda con un alone di mistero che realmente non viene mai meno. Il mistero di non sapere dinanzi a cosa ci si trova, in quale contesto si sia finiti.

Un inizio vagamente fiabesco che acuisce quel senso di spaesamento tanto utile nella prima parte del film, diciamo la prima metà, finché ancora non è davvero emerso di cosa intenda parlare Ariel Kleiman, il giovane cineasta qui al suo primo lungometraggio. Fiabesco nel suo concentrarsi sui suoi personaggi, dunque sulle azioni che questi compiono o sono chiamati a compiere, senza delineare un tempo, un luogo. Alla fine dei conti scopriamo che è questo uno dei meriti più notevoli del film.

Gregori (Vincent Cassel) ha trovato un posto lontano da tutto e tutti, in cui accoglie giovani e meno giovani madri, in stato interessante o meno. Quella che ha creato è a conti fatti una comunità autonoma, con i suoi ritmi, le sue dinamiche: un solo uomo, tante donne ed almeno altrettanti bambini. Più che un harem, perciò, un modello di famiglia allargata così come si teorizza o si pratica negli ultimi anni; verticale all’inverosimile, perché Gregori è sì un padre amorevole, presente e responsabile, ma è anche il sovrano di questo ecosistema, assoluto poiché è lui a dettare minuziosamente le regole oltre che a farle rispettare.

Partisan non è solo la sua storia. È anche quella di Alex, ragazzino nato e cresciuto in questa nicchia, il cui tempo è scandito da numerose attività. Un contesto organizzato a mo’ di monastero, in cui non è possibile annoiarsi: i bambini sono infatti sollecitati nei più svariati modi, e per lo più si tratta di occupazioni che hanno a che vedere col gioco. Tutto è un gioco qui, anzi, è solo attraverso il gioco che s’impara. Anche a diventare dei killer a sangue freddo, perché pure a questo, se non soprattutto, i piccoli vengono iniziati, tra una serata karaoke e l’altra. Kleiman non enfatizza la cosa, lasciandola cadere lì, come se, per l’appunto, fosse parte integrante del vivere nel “regno di Gregori”, come di fatto la vivono i bambini. E le madri? Che dicono loro?

Beh, anche a questo livello Partisan preferisce la via dell’ambiguo laddove non del mistero; le donne di Gregori le sono non soltanto fedeli ma assoggettate, non come a un despota ma come ad un marito e tutore al quale si deve tutto, uno di quelli che non sbaglia in nessun caso. Sino a quando Rosa ed il piccolo figlio Leo non entrano a far parte di questa comunità. Leo è un ragazzino scontroso, solitario, dunque tutt’altro che incline ad integrarsi; ma è anche estremamente dotato, istruito su parecchi fronti, tanto da non pensarci due volte a contraddire Gregori quando se ne presenta l’occasione. Il percorso di Alex e Gregori assume qui una piega decisiva. Ed è esattamente la svolta di cui la trama ha bisogno, fin qui interessante ma al tempo stesso rischiosamente vaga. Ci si domanda infatti se lo scenario sia post-apocalittico piuttosto che distopico, per poi rendersi conto che tali quesiti rilevano secondariamente. Il che un po’ stupisce, dato che per certo periodo pare che la risposta giaccia tra le pieghe di questo enigma irrisolto.

Trovo azzeccato, oltre che ben gestito, il disincanto con cui Kleiman costruisce la trama attraverso gli occhi di Alex. Proprio nel momento in cui i quesiti sul dove, come e perché di ciò che vediamo cominciano a pressare troppo, eccoci catapultati nei panni del piccolo Alex, mentre Partisan, da meramente descrittivo, sebbene in modo appassionante, di una situazione così straordinaria, muta nel percorso di questo ragazzino che si scontra con la dura realtà. Anzi, con la verità di quel posto.

La realtà è ciò che a tutti, Alex incluso, piace, e pure tanto: il vedere il luogo in cui si vive come un’oasi, al riparo dalla violenza e la follia del mondo esterno; il noi contro loro; la spensieratezza del non doversi preoccupare di nulla, per lo meno finché si ascoltano le indicazioni di Gregori. Ma questa non è che la superficie. Come accade a ciascuno di noi, in corso d’opera emergono conflitti che ci costringono a guardare ciò che, per comodità o per semplice inesperienza, non siamo mai riusciti a vedere. Ed allora qualcosa cambia, come nel caso di Alex, al quale da quel momento, nemmeno dodicenne, tocca improvvisamente isolare le priorità ed agire di conseguenza.

Il tutto all’interno di un’ambientazione particolare, atipica, resa credibile non solo dall’abilità con cui ci viene veicolata, quasi fosse un documentario, ma anche in virtù della sua verità di fondo. Cosa succede, infatti, quando un bambino scopre che il proprio padre può sbagliare, e difatti sbaglia? Cosa, quando certe radicate certezze mediante le quali quel bambino è stato cresciuto, le stesse che lo hanno tenuto al sicuro, si rivelano non meno fallaci? Soltanto fermandosi a queste due domande ce ne sarebbe abbastanza per psicoanalisti e teologi, ciascuno nei rispetti campi. Ed in fondo Partisan ha dalla sua proprio questa capacità di offrire un appiglio a ciascuno di noi. Non fiaba dunque, ma votato a quel tipo di universalità che poi è, non di rado, una delle componenti che contraddistinguono le opere migliori. Quando viene saputa maneggiare, certo. Come in questo caso. Attraverso una messa in scena a dire il vero molto “semplice”, o per meglio dire dire essenziale, che si tratti della direzione degli attori (a parte uno, tutti non professionisti) o della scelta delle inquadrature. Con in più un Cassel di quelli che restano.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]

Partisan (Australia, 2015) di Ariel Kleiman. Con Vincent Cassel, Nigel Barber, Jeremy Chabriel, Florence Mezzara, Sapidah Kian, Samuel Eydlish, Wietse Cocu, Timothy Styles, Anastasia Prystay, Katalin Hegedus, Natalia Gorbacheva, Sosina Wogayehu, Zsofia Stavropoulos, Alexander Kuzmenko e Daniel Vernikovski. Nelle nostre sale da giovedì 27 agosto.