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Venezia 2015, De Palma: recensione in anteprima

Brian De Palma si mette a nudo davanti alla videocamera di Noah Baumbach e Jake Paltrow. Un De Palma mai banale, che non tiene quasi nulla per sé, le sconfitte così come i successi. Nell’ambito di un’operazione che sa anche di passaggio di testimone a chi verrà dopo di lui. Consapevole, al tempo stesso, che non ci sarà nessuno come lui

pubblicato 9 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 12:55

Per quanto possa sembrare strano, recensire documentari come De Palma rappresenta una delle sfide più impegnative. Per chi scrive almeno. Perché cosa aggiungere alle parole di un maestro che si scopre, mettendosi a nudo con sincerità, senza inibizioni? Ci si sente quasi indiscreti, stare lì a parlare di ciò che ha vissuto nel corso della sua carriera un regista che di certo non se l’è fatta in discesa. Ci conforta il fatto che pur sempre di un film si tratta, e che casomai è lì che si va a parare.

La faccenda tuttavia si complica alla luce della scelta adottata da Baumbach e Paltrow, che hanno diretto a quattro mani questo documentario. Treppiedi, reflex e una sedia su cui poggiarsi. Nient’altro. De Palma è questo, ossia un pomeriggio trascorso col regista di film quali Carrie, Gli Intoccabili e Mission Impossible, rivivendo la sua carriera attraverso ricordi, aneddoti e qualche sassolino tolto dalla scarpa. Per uno che dà l’impressione di averne avuti parecchi, senza però essersi tolto in tempo le scarpe per evitare di farsi male ai piedi.

Poco meno di due ore che manco te ne accorgi, con quest’amabile personaggio dai capelli bianchi preso non solo dai ricordi ma anche dai bilanci, lui che di anni ne ha settantacinque e certe cose può permettersele. Ma De Palma va anche visto come una Master class, anzitutto sul cinema, ma non solo. Perché quando un cineasta sale in cattedra e ci racconta di una carriera che si snoda attraverso quattro decenni circa, scindere la vita dal proprio mestiere diventa quasi impossibile. Specie, come dicevamo, per uno che ha pagato le sue scelte e che, da un certo punto in avanti, si è dovuto ingegnare parecchie scappatoie pur di girare i film che voleva.

I film. Quelli che si desidera fare per giunta! Capirai. Il regista a un certo punto dà una definizione del proprio lavoro che è eccezionale per schiettezza e verità: «fare film è un po’ come tenere traccia di tutti i compromessi che hai accettato nel corso della tua vita, dei tuoi fallimenti, così come di quelle volte hai scelto di fare una cosa che non avresti dovuto fare semplicemente per pigrizia». Non prendetelo alla lettera, ma il senso grossomodo è questo. De Palma non si nasconde né nasconde i suoi passi falsi, con un’accettazione che tradisce un certo dolore, comunque superato con gli anni e coi capelli bianchi. E, per quanto possa sembrare facile, in più occasioni non lesina di dirci dove e in che modo avrebbe potuto far meglio, magari col non accettarlo nemmeno un determinato progetto. Certe valutazioni, anche a distanza di tempo, sembrano facili, ma siamo convinti che non lo siano.

Se ha da dire che Cliff Robertson sul set di Obsession fu indisponente e sgradevole come una pedata sulle palle, lo dice; non si fa problemi a dire che lavorare con Orson Welles fu un problema perché arrivava sul set senza imparare le battute; che Robert Towne non ci aveva capito niente su Mission Impossible, e che fino alla fine De Palma dovette sentirsi parallelamente pure con l’amico storico David Koepp, che pure Tom Cruise aveva licenziato. Né però si tira indietro quando si tratta di riconoscere quelle volte che gli è andata bene; e così come i passi falsi sono da imputare a lui, nondimeno lo sono i successi, «cose che a un regista capitano poche volte nella vita». A meno che non sei Steven Spielberg, sottolinea De Palma, ammettendo un difetto caratteriale che va al di là del talento per questo mestiere, ovvero la mancanza di pazienza; e quando ti ritrovi con un budget imponente, con uno studio a cui dover dare conto anche dell’aria che respiri, si tratta proprio di un’altra professione. Una per cui dichiara di non essere mai stato portato.

Abbiamo citato Spielberg, con il quale per un periodo sono stati molto amici. Ad un certo punto Baumbach piazza una foto in cui compaiono De Palma, Spielberg, Lucas, Coppola e Scorsese seduti insieme allo stesso tavolo: «quel periodo, semplicemente, non è ripetibile». Una foto e quest’affermazione bastano per crederlo senza riserva alcuna. Eppure colui che contribuì ad inaugurare la New Hollywood, insieme ad altri, con Hollywood non ebbe mai un buon rapporto, sino a quella che De Palma stesso definisce implicitamente una decisione obbligata: siamo nei primi anni 2000 ed il regista decide di scappare da quel mondo fatto di sogni e quattrini per mai più tornarci.

Manco a dirlo, ce n’è pure per Hitchcock. Che De Palma sia uno dei suoi studenti più scrupolosi è affare noto. Quello che forse è meno conosciuto è il parere del discepolo sugli ultimi film del maestro della suspense: «ho imparato che il picco creativo di un regista è tra i 30 ed i 50 anni. Dopodiché farà sempre gli stessi film. E per quanto molti fatichino ad ammetterlo, la verità è che gli ultimi lavori di Hitchcock non sono all’altezza di film come La donna che visse due volte e Psycho. Si parla de Gli uccelli, ma anche su quello ho qualche dubbio». Per uno che, al di là di tutto, ha amato Hitchcock così tanto, basterebbe anche solo questa di autorevolezza.

Vedete, credevamo fosse arduo scrivere di questo documentario, che è poi un resoconto, ma c’è l’abbiamo fatta. E non ci siamo soffermati su ciò che De Palma pensa del suo stile, sulle difficoltà degli esordi e via discorrendo. In 107 minuti di immagini, stralci di film, racconti e indiscrezioni fate voi quanto materiale degno ci si possa tirare fuori. L’approccio dei due registi è essenziale, ridotto all’osso. Scelta che potrebbe non convincere a pieno chi si aspettasse qualcosa di più pirotecnico, ma che al tempo stesso potrebbe avere alla base il rispetto verso uno dei più grandi cineasti di sempre, a cui, ancora oggi, basta un’inquadratura e qualche immagine di repertorio per tenerci incollati allo schermo. Senza fastidiose celebrazioni, il bilancio di questo documentario è contemplato nel titolo: semplice e diretto.

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