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Un mondo fragile: Recensione in Anteprima

Inno alla vita, alla libertà, alla dignità e alla speranza. Travolgente debutto colombiano con Un mondo fragile

pubblicato 18 Settembre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 12:38

Laurearsi presso la facoltà di Comunicazione Sociale all’Università del Valle presentando una sceneggiatura, riuscire a tramutarla in lungometraggio, presentarsi al Festival di Cannes nella Settimana della Critica e tornare a casa con il Premio del Pubblico Gran Rail d’Or, il Premio Rivelazione, il Premio Nuovi Autori e il Premio Camera d’ Or. 28 anni all’anagrafe, il colombiano César Augusto Acevedo ha travolto e commosso la Croisette grazie a Un mondo fragile, opera prima di straordinaria e disarmante bellezza.

Una pellicola che ruota attorno ad una piccola casa e a quell’albero che le fa ombra. Tutto intorno canne da zucchero, soffocanti e angoscianti, mentre al suo interno vive un micro-cosmo familiare. Alfonso è un vecchio contadino che, dopo 17 anni di lontananza, torna dalla sua famiglia perché il figlio Gerardo è molto malato. Ad accoglierlo il nipotino che mai aveva visto, la giovane nuora e l’anziana donna che un tempo era sua sposa, abbandonata dal giorno alla notte. Quel che Alfonso si trova davanti, però, è uno scenario da apocalisse in Terra. Perché i fiori, i paesaggi e gli alberi che un tempo aveva lasciato sono stati cancellati e sostituiti da infinite piantagioni da zucchero, che circondano quella casa avvolta da una terrificante pioggia di cenere provocata dai continui incendi appiccati per sfruttare le piantagioni. Per poter trovare la strada della salvezza dovrebbero tutti abbandonare quella piccola abitazione, come fatto in un’onirica scena da un cavallo ritrovatosi quasi per caso in sala da pranzo, se non fosse che l’attaccamento alla terra, a quelle radici mai dimenticate e a quelle mura letteralmente tirate su con le proprie mani renda il tutto complicato. Per non dire impossibile.

Nella Valle del Cauca, fino a pochi anni fa, esistevano 198.000 ettari coltivati a canna da zucchero, ovvero circa il 50% dell’area totale seminata nella regione. Il 90% dei 18.000 corteros che lavoravano nelle piantagioni venivano sfruttati e prosciugati, a causa di un regime di semi-schiavitù che li vedeva privati di alcuni diritti fondamentali dei lavoratori, vedi prestazioni sociali, indennità di disoccupazione, pensione, assistenza al malato, ferie e quant’altro. Realtà che hanno portato a diversi casi di paralisi totale e parziale, lesioni agli arti, infezioni ed intossicazioni a causa dell’acqua contaminata e dei pesticidi, dolori nella colonna vertebrale, artrosi, ernie del disco, lesioni per gli sforzi. C’è anche questo terribile spaccato sociale nel film d’esordio di César Augusto Acevedo, che ha dipinto i tratti di una famiglia d’altri tempi per sottolineare come il falso mito del processo tecnologico abbia in realtà smembrato l’identità di interi popoli, cancellandone la storia e la memoria.

Stilisticamente ‘pittorico’, con dei veri e propri ‘quadri cinematografici’ che prendono vita sullo schermo citando Millet e Wyeth, Un mondo fragile procede per immagini, suoni, rumori. Ridotti al minimo i dialoghi ed eliminata la colonna sonora, il film vive grazie ad attori non professionisti, trovati sul posto e talmente bene ‘istruiti’ da suscitare dirompenti emozioni. Attraverso i silenzi, le verità non dette legate al passato e i mancati sguardi il giovane regista affida ad una famiglia sull’orlo della tragedia un’ultima occasione per trovare la pace, affrontando le proprie responsabilità. Grazie all’incredibile fotografia di Mateo Guzman, che vira tra il grigio cenere che avvolge tutto e tutti e il blu polvere dell’oscura casa, circondata dalle fiamme in un’apocalittica e folgorante scena, il dolore, i sensi di colpa, la speranza e l’amore che sgorgano da questi 5 protagonisti si animano tra i volti scavati dalla stanchezza e rigati dalle lacrime.

Attraverso la scellerata distruzione del paesaggio e del terreno, l’emigrazione verso le grandi città e la povertà inflitta a quei poveri e sfruttati contadini il più delle volte lasciati morire una volta ammalati, Augusto Acevedo ha celebrato quelle popolazioni rurali che con coraggio, ancora oggi, lottano per la libertà e la dignità della loro terra, rimanendo ancorati a quelle radici che il mondo globalizzato vorrebbe estirpare. Attraverso una regia ‘asciutta’, quasi del tutto priva di movimenti di macchina ma emblematica nel prendersi tutto il tempo necessario per farci toccare quasi con mano quel che stiamo vedendo (e vivendo), il regista ha poi calcato la mano sull’aspetto drammatico per sottolineare l’importanza della famiglia e di quelle origini che troppo spesso, in un mondo 2.0., vengono facilmente dimenticate, per non dire bruciate e spazzate via come fuliggine al vento. Un’opera visivamente straordinaria ed emotivamente impetuosa, quella realizzata da questo 28enne colombiano di cui sentiremo ancora parlare. Questo è poco ma sicuro.

[rating title=”Voto di Federico ” value=”9″ layout=”left”]

Un mondo fragile (La tierra y la sombra, Colombia, 2015, drammatico) di César Augusto Acevedo; con Haimer Leal, Hilda Ruiz, Marleyda Soto, Edison Raigosa, José Felipe Cárdenas – uscita giovedì 24 settembre 2015.

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