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Race – Il colore della vittoria: recensione in anteprima

Innocuo affresco inerente a un personaggio, Jesse Owens, la cui storia merita senza alcun dubbio di essere raccontata. Solo, in maniera diversa, di gran lunga più incisiva rispetto a quanto non si faccia in Race – Il colore della vittoria

pubblicato 24 Marzo 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 07:36

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Olimpiadi del 1936, Berlino. Un evento planetario spartiacque, il cui significato va ben oltre lo sport, probabilmente mai più come allora veicolo per questioni ben più complesse. Una prova di forza da parte del Terzo Reich, che con quei Giochi intendeva mostrare al mondo la propria potenza dopo all’incirca un decennio di duro lavoro.

Siamo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale e gli equilibri sono sempre più precari. La federazione olimpica americana, alcuni dei suoi membri almeno, sembra contrariata all’idea delle possibili restrizioni da parte dei tedeschi circa i partecipanti. Solo solo nell’atletica troviamo già due ebrei ed un nero, e gli USA non hanno intenzione di sottostare al possibile rifiuto da parte del Partito Nazionalsocialista. Per mediare la cosa viene inviato in Germania Avery Brundage (Jeremy Irons), che ottiene il benestare in cambio della partecipazione degli Stati Uniti ai giochi. È questo uno dei passaggi chiave.

Race – Il colore della vittoria non può perciò essere soltanto un film sportivo, o su uno sport, perché ciò che racconta è Storia con la S maiuscola. Bensì, passando dal biopic, ha il compito di raccontare un periodo, per quanto brevemente, ed una cultura – in questo caso due, sia quella americana che quella tedesca. Superfluo ribadire il concetto di fondo, evocato in maniera tutt’altro che sottile dal rumoroso titolo, per cui il tema alla base sia attuale, oltre che adattabile a situazioni diverse ma analoghe.

Questo non andare tanto per il sottile è però frutto di un equivoco, artistico più che altro, per cui il messaggio travolge fino quasi a coprire del tutto l’opera. Non si spiega diversamente come un film dal potenziale così evidente risulti piatto, scontato, così strenuamente “giusto”, “pulito” da cogliere poco o nulla in merito alla promettente premessa. Chi è Jesse Owens, per esempio? Il film non lo chiarisce, e di certo non per colpa di Stephan James, l’attore che lo interpreta. Ok, sappiamo che è un giovane nero che, come la stragrande maggioranza della sua gente, ha passato un’infanzia difficile e che ancora si muove all’interno di un contesto che lo vede come un alieno. Questo lo sapevamo e lo sappiamo. Sì, è anche un atleta, di quelli con un dono particolare peraltro, talento che un allenatore, più preparato e di buon occhio che fortunato, scorge.

Il resto è per lo più cronaca abbellita: l’ascesa verso il palcoscenico che conta, il matrimonio con l’amore della sua vita, il clamore mediatico. Nulla o quasi emerge in relazione agli scrupoli, la sofferenza e morale e mentale di un uomo sottoposto a pressioni oltremodo provanti proprio da parte di coloro che più di tutti l’avrebbero dovuto proteggere. Quando un membro del Congresso, esponente del movimento a tutela dei diritti dei neri, si presenta a casa di Jesse, comprendiamo l’angoscia di sentirsi dire «o noi o la tua carriera», ma il modo in cui viviamo il dramma è stranamente contenuto, quasi indolore. Indolore, s’intende, quando invece dovrebbe fare un male cane, quando ci si dovrebbe sentire lì, seduti su quella sedia mentre qualcuno ti sta implicitamente “imponendo” di rinunciare ai sacrifici di una vita per una seppur nobile causa.

Lo capiamo, ma non lo sentiamo. E di tali passaggi è pieno zeppo il film, che raramente regala momenti di una certa intensità, limitandosi ad una confezione impeccabile ma essenzialmente vuota. Certi che la vicenda sia potente di suo, gli autori si sono limitati ad adattarla al medium nella maniera meno rischiosa possibile, ottenendo di contro un prodotto per lo più passabile. Anzi, laddove il film tocca e “riesce” lo deve proprio al filo conduttore che lo lega alla realtà, che però viene per lo più vanificata da un affresco così innocuo e privo di mordente. Tanto che l’apice stesso della trama, ossia l’agognata vittoria dei quattro ori olimpici, non può in alcun modo consentirci di rilasciare quella tensione per la quale si è costruito poco di veramente valido.

È comunque interessante sapere, per esempio, che la Riefenstahl chiese e ottenne – per intercessione di Hitler, ché Goebbels pare non simpatizzasse particolarmente per la regista – di poter girare le Olimpiadi con più di quaranta macchine da presa sparse per lo Stadio Olimpico di Berlino? Diamine se lo è! Così come è importante conoscere la figura di Luz Long, atleta tedesco che subito dopo quelle Olimpiadi fu spedito in Guerra per via del suo atteggiamento durante i Giochi e, sostanzialmente, la sua amicizia con Owens (peraltro una delle parti che più funzionano nel film).

Sì, ma rimane che il cuore di questa storia ci resta per lo più precluso, oscurato alla vista da un risultato che cerca per lo più di blandire attraverso una veste d’alto livello anziché preoccuparsi di scavare per bene nel merito della questione, finendo col fare di Race – Il colore della vittoria un lungo spot pubblicitario per le pari opportunità. Tutto ciò, pur riconoscendo le attenuanti del caso, cioè che questa non era certo una storia facile da trasporre. Il che sarà senz’altro lodevole quanto alle intenzioni, meno riguardo ai meriti di chi vuole raccontare una storia esplorandola davvero, dando modo anche a noi spettatori di entrarvici.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Race – Il colore della vittoria (Race, USA, 2016) di Stephen Hopkins. Con Stephan James, Jason Sudeikis, Jeremy Irons, Carice van Houten, Eli Goree, Tony Curran, Shanice Banton, Amanda Crew, David Kross, Barnaby Metschurat, Jonathan Aris, Tim McInnerny, Nicholas Woodeson, Jesse Bostick e William Hurt. Nelle nostre sale da giovedì 31 marzo.