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Venezia 2016, Spira mirabilis: recensione del documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Festival di Venezia 2016: alla ricerca della perfezione attraverso un documentario vistosamente imperfetto. Encomiabile l’ambizione del duo D’Anolfi-Parenti, che si scontra però con l’evidente difficoltà nel dare forma ad un progetto sulla carta stupendo qual è Spira mirabilis

pubblicato 4 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 06:10

«Simbolo di perfezione e di infinito, la “spirale meravigliosa”, Spira mirabilis come viene definita dal matematico Jackob Bernoulli, è una spirale logaritmica il cui raggio cresce ruotando e la cui curva si “avvolge” intorno al polo senza però raggiungerlo». Togliamoci immediatamente di torno l’obbligo di spiegare il titolo, bellissimo e calzante. Spira mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti è uno di quelli riguardo ai quali potresti parlare per ore, magari tirando fuori concetti che nemmeno appartengono al progetto, tale è l’ampio appeal di un documentario del genere.

Al centro l’immortalità, questione irrisolta e probabilmente irrisolvibile, su cui non a caso i due registi si soffermano in maniera sfuggente, a tratti aleatoria. Un percorso per immagini nel tentativo di affrontare la questione senza lasciarsi imbrigliare da logiche divulgative. Certo, si cerca in qualche modo conforto anche nella scienza, o per lo meno ci si rivolge a lei che fino a qualche tempo fa era regina indiscussa dell’uomo, ma alla fine si prediligono altri toni, ben meno netti ed inequivocabili. Quando per esempio entriamo nel laboratorio di Shin Kubota ciò che vediamo sono per lo più ingrandimenti al microscopio di questa particolare medusa che pare avere il dono dell’immortalità. Applicazioni per l’uomo? Al momento nessuna.

L’andamento è elegiaco, rassegnato, perché sull’immortalità, da mortali quali siamo, si può tutt’al più dire ciò che non è. Purtroppo si avverte con insistenza la mancanza di un punto di fuga e quello soltanto, verso cui convogliare la nostra attenzione; elemento essenziale, il cui venire meno rischia pericolosamente di far scivolare, e a più riprese, Spira mirabilis nel recinto del collage visivo. Senza dubbio ci sono dei nessi nell’indisciplinato montaggio, senonché non risultano altrettanto chiari allo spettatore quanto lo sono agli autori.

È il rischio che si corre ogni qualvolta si decide di intraprendere il sentiero concettuale, quello di rivelarsi un linguaggio criptico, in alcuni casi ermetico. E purtroppo non bastano 120 minuti per illustrare l’idea, lo spunto che ha mosso D’Anolfi e Parenti in maniera così viscerale. Non si sta qui reclamando la presunta superiorità della drammatizzazione, del conflitto, su opere dal respiro più ampio, decisamente meno ancorate a schemi e formule. A Spira mirabils però manca quella coesione capace di renderlo uniforme, non dico risolto – ché magari non era neanche intenzione.

Acqua, aria, terra e fuoco sono prevalenti nel discorso di questo documentario, che saltella con disinvoltura dalle minuscole meduse osservate al microscopio in Giappone alla riserva di sempre più sparuto gruppo di nativi americani alle prese con la loro progressiva oltre che forzata estinzione. Ma si tratta di episodi per lo più slegati, da cui entriamo ed usciamo come da un locale gelido ad uno afoso; l’effetto può essere devastante e non nell’accezione positiva del termine.

Recuperando parecchio materiale dal loro precedente L’infinita Fabbrica del Duomo, D’Anolfi e Parenti si accostano all’immortalità anche in forma di simulacro, di opera che si faccia carico di estendere non l’esistenza della persona bensì la sua fama, il suo ricordo. Tutti discorsi interessanti, che anche quando affiorano ci riescono con immane fatica. L’impressione è che si sia fatto il passo più lungo della gamba, nel senso che all’encomiabile ambizione non sia seguita un’analoga consapevolezza circa come portare a casa il risultato.

Lo suggeriscono le due ore, francamente troppe, per poi lasciare che a spiegare in maniera più spigliata parte di ciò che abbiamo visto sia l’ultima mezz’ora o giù di lì, quando tocca scoprire chi è Kubota, di cosa si occupa e che si diletta pure nel canto. Troppo poco e troppo tardi per far lievitare questa massa dal potenziale innegabile ma che stenta a prendere una vera e propria forma. Anzi, che ahinoi proprio non ci riesce. Non a caso lascia l’amaro in bocca pure a chi scrive che non si sia riusciti a trovare una soluzione al complesso rompicapo che sarà stato mettere insieme tutto questo materiale.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4.5″ layout=”left”]

Spira mirabilis (Italia, 2016) di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Nelle nostre sale da giovedì 22 settembre