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Il diritto di contare: recensione in anteprima

In un’America in cui ancora si fatica a liberarsi delle discriminazioni ai danni dei neri, tre donne di colore ricoprono un ruolo significativo nell’ambito del processo che porterà il primo uomo sulla Luna. Il diritto di contare rende accessibile una pagina di per sé pesante, qua e là zoppicando però

pubblicato 26 Gennaio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 02:13

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Nei primi anni ’60 la situazione negli USA circa certe disparità sociali non era delle migliori: malgrado l’inesausto lavoro di personaggi come Martin Luther King, il processo di “accettazione” (termine pessimo, ma tant’è) dei neri quale parte integrante del tessuto sociale americano faticava ad ingranare. È in un contesto del genere che vivono ed operano Katherine (Taraji P. Henson), Dorothy (Octavia Spencer) e Janelle (Mary Jackson), tre donne di colore che lavorano alla NASA. In particolare la prima, Katherine, ha un dono per la matematica, i calcoli, qualcosa oggettivamente fuori dall’ordinario. Eppure, in quanto donne e nere, le loro mansioni sono relegate ad una sorta di sgabuzzino allargato, un retrobottega dove lavorano un’altra trentina di persone.

Il diritto di contare muove da premesse oggettivamente un po’ datate, sebbene vi sia chi sostenga che nell’era-Trump il rischio di un razzismo di ritorno sia più che possibile. E vi sono manifestazioni a sostegno di quanto appena evidenziato, come i primi venti minuti circa del film, in cui Melfi non riesce ad evitare una certa farraginosità, una pesantezza che eppure, andando avanti, viene meno: Katherine perde mezz’ora al giorno solo per andare in bagno perché nello stesso stabile le persone di colore non sono ammesse; Katherine non può bere il caffè dalla stessa caffettiera dalla quale se lo versano tutti; Katherine distrae con la sua sola presenza, e via discorrendo.

Intendiamoci, è finita quella stagione in cui venivano opposte figure palesemente e rumorosamente negative alle vittime di discriminazioni; oggi il senso di colpa passa da profili più sfumati perciò più credibili, ma sempre senso di colpa è. In un passaggio l’ambiguo supervisore Mitchell (Kirsten Dunst), dopo una serie di uscite poco felici più che altro nei toni, approfitta di un momento in cui lei e Dorothy si trovano da sole in bagno per dire a quest’ultima che, malgrado quello che possano credere, lei non ce l’ha con le donne di colore; per tutta risposta Dorothy se ne esce esclamando: «sono sicura che lei ci creda davvero a ciò che sta dicendo». C’è insomma sempre quel non so che di anacronistico, per cui ci si relaziona con un fenomeno tutt’altro che attuale (ai fini del discorso non rileva quanti razzisti ci siano in giro) con la consapevolezza di chi appartiene ad un’epoca successiva. La risposta di Dorothy è intelligente, fulminante, ed è probabile che lei o chi per lei in quel periodo abbia avuto modo di tuonare in quel modo esatto; ma proprio perché il personaggio in questione denota a più riprese un certo equilibrio, lungi per esempio da chi, come il marito di Mary, lascia intendere che l’unica risposta ai torti subiti abbia a che vedere con qualcosa di molto simile alla violenza; ebbene, proprio per questo stona che al personaggio in questione venga messa in bocca una battuta che è uno slogan. Viene in mente un bellissimo racconto breve di Flannery O’Connor, Punto Omega, che a tal proposito risulta certamente più incisivo.

Ad ogni buon conto, una frase ad effetto dunque, che alimenta quel processo volto ad incentivare una sorta di colpa collettiva, anche di chi, pur non condividendo affatto certe ingiustizie, non si è speso abbastanza per farle rientrare. Il messaggio a questo punto prende il sopravvento, ed è un peccato, perché cozza col tenore generale del film, piuttosto sobrio, pacato, anche divertente. In un’altra scena si assiste invece ad un errore di diverso tipo. La NASA è già stata superata dai sovietici, che sono i primi ad aver mandato un loro uomo in orbita, mentre gli americani faticano anche solo a capire come far prendere quota al loro razzo. Ebbene, le difficoltà che sperimenta il gruppo a lavoro sul problema vengono allineate a quelle di Katherine, che ogni giorno perde un sacco di tempo per andare in bagno, visto che si trova dall’altra parte del campo. Quando il suo capo, Harrison (Kevin Costner), viene a conoscenza della cosa, prende una spranga e butta giù l’insegna che c’è sopra il bagno dello stabile in cui si vieta l’accesso alle persone di colore. Nella scena successiva, dopo sorrisi, stupore e soddisfazione, si assiste a come il gruppo viene a capo del problema e lo risolve. A rigor di logica non dovrebbe esserci correlazione, e forse nelle intenzioni non c’è, se non quella per cui un gruppo affiatato e che collabora ottiene risultati di gran lunga migliori (altro letimotiv del film in ogni caso). Nondimeno questa successione di eventi, così ravvicinata, genera una risata involontaria, del tutto evitabile.

Diciamo allora che a tenere in piedi il film sono proprio gli attori, tutti: la Kathrine della Henson, una nerd ante litteram che però non eccede nei toni, così come la Dorothy della Spencer, che fu la prima a raccapezzarsi con quel mastodontico archibugio spedito dalla IBM alla NASA per ricavare certi calcoli (la macchina sfornava 24 mila calcoli al minuto). Certo, l’idea di assegnare il ruolo d’ingegnere capo a Jim Parsons (il celebre Sheldon di The Big Bang Theory) è un po’ un’arma a doppio taglio, va detto. Ad ogni modo, proprio dal personaggio di Octavia Spencer passano le cose più sensate, che oltretutto sarebbero bastate, tipo quando fa notare alle sue colleghe che bisogna darsi da fare ed imparare un nuovo linguaggio, il FORTRAN, dato che i computer a breve renderanno le loro competenze obsolete; e c’è tutto un discorso che si può fare su questa specifica esortazione, cui ne fa seguito un’altra, ossia «dobbiamo rimboccarci le maniche e renderci indispensabili», uno dei passaggi più lucidi del film.

Alla luce di quanto sinora scritto si ha l’impressione, netta, che Il diritto di contare non potesse comunque essere a priori qualcosa di diverso, e che anzi il vero lavoro sia consistito proprio nell’arginare certe derive pesantemente rivendicative, che oggi avrebbero meno significato. A non aiutare, al di là di questo tipo di considerazioni, c’è pure un’estetica che comprendiamo imprescindibile per una produzione del genere, ma che ahinoi rende il tutto più posticcio, o per lo meno, suscita quel senso lì. C’è dietro un lavoro non indifferente da parte del DoP Mandy Walker nel cercare di ricreare il mood dell’epoca, uno sforzo non da poco che però contribuisce a rendere il tutto eccessivamente ovattato, troppo pulito, troppo “bello”, e, unito al ritardo di cui sopra, purtroppo si rischia di perdere più che qualcosa (qui c’è un articolo interessante a riguardo, per chi volesse approfondire). Poi però si prende pure atto che in non pochi frangenti Il diritto di contare si atteggia a commedia, e che effettivamente stemperare toni ed atmosfera sia probabilmente l’unico modo mediante cui sottoporre un progetto del genere al grande pubblico. Al che emergono ulteriori domande, che però esulano dagli obiettivi di una recensione: quanto non convince a pieno dell’appena sufficiente film di Theodore Melfi tendo tuttavia a credere che abbia a che vedere con le risposte che ne ricaveremmo.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”5″ layout=”left”]

Il diritto di contare (Hidden Figures, USA, 2016) di Theodore Melfi. Con Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons, Mahershala Ali, Aldis Hodge, Glen Powell, Kimberly Quinn, Olek Krupa ed Ariana Neal. Nelle nostre sale da mercoledì 8 marzo 2017.