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Resident Evil: The Final Chapter – recensione in anteprima

Com’era lecito supporre, The Final Chapter si colloca sulla medesima linea degli ultimi capitoli della saga, con un’azione stavolta falcidiata dal ricorso alla stereoscopia, inappropriato come poche volte. Ma sarà davvero la fine?

pubblicato 8 Febbraio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 01:55

Quando nel 2002 Paul W. S. Anderson tirò fuori la prima, attesa trasposizione di una delle saghe videoludiche più amate di sempre, non parve manco vero: la risposta fu immediata ed il film incassò piuttosto bene. Una tendenza per tutte e cinque le precedenti iterazioni, malgrado la leggera flessione con Retribution rispetto al precedente Afterlife. Un fenomeno che non può perciò essere cassato troppo impunemente, essendosi comunque imposto come saga cinematografica che in totale ha incassato sopra il miliardo di dollari. Perché sì, checché se ne dica, Resident Evil lato cinema fa comunque storia a sé.

Con Resident Evil: The Final Chapter non poteva che finire là dove tutto è cominciato: Alice ha quarantott’ore per raggiungere Raccoon City da Washington, e le cose vengono messe in chiare subito: neanche il tempo di uscire da una sorta di bunker, la nostra eroina deve vedersela con un gigantesco volatile mutante. Qui Anderson c’informa senza giri di parole cosa abbiamo d’aspettarci anche stavolta: montaggio serrato, ritmo sopra le righe e sviluppo sconclusionato. Chi perciò temesse (o sperasse, a seconda delle prospettive) che il regista avrebbe chiuso in maniera più contenuta rischia di rimanere contraddetto. Il motivo per cui Alice deve infiltrarsi nell’Alveare sta nel recupero di un antidoto al virus T, solo che ha i minuti contati prima che l’ultimo avamposto umano venga spazzato via.

Col tempo Resident Evil è diventato tutto è il contrario di tutto: gli zombie non sono più stati zombie, svariate ambientazioni si sono succedute, ed in generale le varie trame non sono state altro che un pretesto per offrire spettacolo sfrenato, pure troppo. In relazione a quest’ultima componente emerge uno dei limiti maggiori di quest’ultimo capitolo, che va al di là dell’accettazione a priori di un contesto in cui non si deve tener conto di tante cose: lascia infatti perplessi il ricorso al 3D a fronte di un film dal ritmo così frenetico e che per il 90% si svolge in condizioni di scarsa illuminazione, o perché sera o perché ci si muove in spazi chiusi. Voglio dire, è giusto rispettare una tradizione che vuole questa saga a cavallo tra l’horror e la fantascienza, ma quante sono nel mondo le sale che dispongono di una cornice e un impianto che consentano di vedere film in 3D in condizioni ottimali (condicio sine qua non per poter usufruire dignitosamente di tale tecnologia)?

Per quanto ci si renda dunque conto della necessità di non fare pesare troppo l’ago della bilancia in un senso piuttosto che in un altro soffermandosi solo ed esclusivamente su questo elemento, tocca comunque sottolineare come il 3D si riveli un difetto vero e proprio, pure perché il film è stato girato anche in questo modo. Nelle fasi più concitate si rischia perciò di non discernere granché, peccato che, in altri contesti, viene rinfacciato con sdegno a cineasti come Michael Bay. Nell’ambito di un progetto che peraltro punta quasi tutto sulle sue scene d’azione, i cui intervalli “narrativi” servono solo per riprendere fiato tra una scena madre e l’altra di questo segno, il confusionario esito non può che incidere parecchio. D’altro canto l’impressione che si ha è che il montaggio di per sé remi contro, e che la stereoscopia non faccia che acuire il problema anziché esserne di per sé causa.

Detto questo, passiamo a colei che più di tutto incarna questa saga e che l’ha letteralmente trascinata lungo questi sei film. Milla Jovovich esercita un fascino particolare nei panni di Alice, sia per tutto quello che ha passato nel corso di questa sua rocambolesca avventura, sia perché si tratta di una tra gli eroi al femminile malgrado tutto più riusciti in sala. Vuoi per la costanza, che, volente o nolente, è già virtù, vuoi perché è innegabile che il suo volto, la sua figura, si siano prestati molto bene ad incarnare questo ideale di macchina di morte, tecnica e muscolare come nemmeno svariati personaggi al maschile. Lei sì, a parte qualche breve, fulminante sequenza, qui viene volutamente ridimensionata. La qual cosa ha un senso alla luce del finale, un twist che a posteriori ripercorre l’intera saga, e in relazione al quale tutto Final Chapter altro non è che un rumoroso preludio, nemmeno così corroborante.

Insomma, il cerchio si chiude, anche se questo significa poco: alla luce dell’epilogo, infatti, è più che lecito pensare che la parola Final di cui al titolo si riferisca al primo atto più che all’intera saga, sebbene a riguardo ci sembri inopportuno scrivere altro. Questo sesto capitolo, conclusivo o meno, cerca di tirare le somme in merito agli ultimi quindici anni, ponendo sul piedistallo la sua indiscussa protagonista, che a conti fatti rappresenta ciò che più di ogni altra cosa connota la versione cinematografica del brand Capcom. E lo fa senza prendere le distanze da ciò che è stata sino ad ora, ossia una operazione di successo sgangherata ed esagerata che ha intercettato un suo pubblico, al quale anche stavolta si rivolge battendo i piedi per terra. Non tragga però in inganno l’incipit: il ritorno alle origini ha una sola funzione e quella soltanto, ossia chiudere questa sorta di prima fase della saga. Per il resto il tenore resta grossomodo quello degli ultimi tre capitoli.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Resident Evil: The Final Chapter (Germania/Australia/Canada/Francia, 2016) di Paul W.S. Anderson. Con Milla Jovovich, Iain Glen, Ali Larter, Eoin Macken, Fraser James, Ruby Rose, Shawn Roberts, William Levy, Rola, Joon-gi Lee ed Edwin Jay. Nelle nostre sale da giovedì 16 febbraio 2017.