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Berlino 2017: The Lost City of Z – l’ansia di trovare il proprio posto nel mondo

C’è classico e classico. James Gray fa un film come se ne giravano all’incirca cinquant’anni fa, ma arriva dove pochi altri riescono nell’ambito del panorama contemporaneo, specie tra gli studios

pubblicato 14 Febbraio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 01:49

E dire che di tutta prima il colonnello Percival Fawcett nemmeno vuole partire per la Bolivia. È infatti la Royal Geographical Society a chiedere al colonnello d’imbarcarsi in questa spedizione, con la lusinga che, sola, può fare davvero presa su di lui, ovvero una medaglia, se non addirittura dei riconoscimenti maggiori. Ed allora parte, parte verso queste terre ancora sconosciute, che fanno gola all’Impero. Da quel primo di più viaggi, però, Fawcett non tornerà lo stesso.

The Lost City of Z ci parla di ossessione, non una in particolare; i personaggi, a partire dal protagonista, sono totalmente asserviti alla misurazione in termini se vogliamo drammatici, cinematografici, di questo sentimento così umano, così universale. Quella di Percival, come tutte peraltro, è difficile da etichettare, a metà strada tra il desiderio di portare alla luce un mondo nuovo e quello, ben più pressante a dire il vero, di apporre sopra a tale scoperta il proprio nome. Ed allora il film di James Gray diventa anche, forse pure di più, un film sull’ambizione, che sempre corrode finché o si esaurisce lei o esaurisce il suo portatore. Inevitabilmente la fede gioca un ruolo determinante: un nativo del luogo racconta di questa città segreta e quando il colonnello trova ai piedi di un albero dei frammenti di una ciotola la sua convinzione ne esce ringalluzzita a tal punto che su questo vale la pena scommettere una vita intera.

Film di suggestioni, per lo più evocate, sottratte alla vista, fino a quello spettacolare finale, che certo, arriva dopo oltre due ore. Due ore intrise di un lirismo quasi elegiaco, con lo stesso identico motivo musicale che accompagna praticamente tutti gli episodi; perché sì, The Lost City of Z non è una storia bensì un’insieme di racconti, per lo più simili, la cui presunta ripetitività si spiega proprio in funzione di uno dei temi summenzionati, portanti, cioè l’ossessione. Ciò che a noi in quanto spettatori appare chiaro, per Fawcett non lo è: tutte le volte che torna in quella foresta in realtà non si avvicina di un millimetro a questa fantomatica città, eppure tutte le volte ritorna ancora più persuaso della sua esistenza.

Sarà l’attaccamento all’esplorazione? L’idea, sentita e risentita, che il viaggio valga più della meta? Non direi, proprio perché Gray rifiuta di offrirci questa chiave, costruendo le fasi esplorative in maniera oltremodo classica, risaputa. Così reiterando quanto emerso già con The Immigrant, che ha segnato una tappa importante per il regista, da quel momento dedito ad un tipo di cinema molto più tradizionale, perciò familiare. E The Lost City of Z familiare lo è in tutto e per tutto, nell’incipit, nel suo dipanarsi, nella sua seppur meravigliosa fotografia sgranata in 35mm, tutto ci riporta a formule classiche. Dove il tiro viene aggiustato è sul fronte dei significati, delle implicazioni relative alla trama, i cui protagonisti, come già detto, non debbono catturarci, né forse finanche interessarci più di tanto.

Di Fawcett alla fine ne sappiamo più o meno quanto all’inizio, al netto di un certo fatalismo acquisito nel corso del tempo, attraverso il quale intende spiegare anzitutto a sé stesso il proprio insuccesso («sii uomo: non accadrà nulla che non sia già scritto nel nostro destino», dice più o meno al figlio allorché vengono catturati dagli indigeni). E quando la moglie (Sienna Miller) gli augura che la sua ambizione non superi mai la reale capacità di corrispondervi, capisci 1. che la moglie è un personaggio ben meno “periferico” di quello che sembra, malgrado più e più volte lasciata da sola a crescere la prole, 2. che The Lost City of Z è, qualora non fosse stato chiaro fino a un attimo prima, parabola di un appassionante fallimento. E ciò che deve appassionare non è la vicenda in sé nel suo svolgersi, l’avventura, il ritorno in Patria a combattere la ritrosia canzonatoria di tutti. No. O forse anche. Ciò che deve anzitutto colpirci è la passione stessa di Fawcett, la sua testardaggine, la sua ostinazione, contro tutto e contro tutti, il suo giocare col fuoco finché non finisce scottato.

In questo Gray sembra riuscire piuttosto bene, restituendo quella forza che aleggia da un certo punto in avanti, specie se si coglie per tempo che, per quanto cronologicamente coerente, il regista e sceneggiatore spezzetta non tanto la vita del suo protagonista ma finanche i punti salienti su cui intende concentrarsi, optando per una progressione episodica di per sé eloquente, per cui non su Fawcett dobbiamo restare ripiegati ma su quanto va in lui crescendo. Solo così si spiega perché James Gray rifugga tutta quella vasta gamma di elementi che eppure un film così “riconoscibile” porta in dote, dall’esotismo esasperato a certi capovolgimenti narrativi. Niente da fare, tutte cose che ci vengono negate perché che senso ha parlare di esotismo nel 2017 (perciò niente inquadrature mozzafiato sull’ambientazione) e di colpi di scena?

Tutto ciò semplicemente non serve al tipo di operazione messa in piedi per The Lost City of Z. Qui parte la metafora, quella di cui in tanti hanno tanta “paura”, laddove non ribrezzo: la Z sta per la destinazione ultima, quella insomma definitiva. Ed è persa (lost) prima ancora di essere trovata. L’esistenzialismo che pervade quest’ultima fatica di Gray lo trovo francamente corroborante, anche perché si manifesta in maniera ben più insolita di quanto le formule da lui adottate non lascino intendere. The Lost City of Z sarà pure un film “vecchio”, ma che parla di una ricerca che accomuna tutte le epoche, a tutte le latitudini e longitudini, come avviene nei film di cui si sente il retrogusto, sia esso Aguirre, Furore di Dio, Apocalypse Now o Barry Lyndon: la ricerca del proprio posto nel mondo. Fosse riuscito a far convogliare con maggiore incisività il tutto staremmo parlando addirittura di un gran film, che però questo di Gray non è, o quantomeno non sembra – per certe cose ci vuole tempo. Tuttavia la voglia di tornare a certe tematiche nell’ambito di un progetto del genere, fatto dagli studios, è davvero incoraggiante.

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