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Emoji – Accendi le emozioni: recensione in anteprima

Nello smartphone di un ragazzino innamorato le emoji non si limitano ad indicare stati d’animo bensì li coltivano. Tanto, troppo per l’animazione sorprendentemente di second’ordine proposta in Emoji – Accendi le emozioni

pubblicato 26 Settembre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 01:41

Quando delle emoji prendono vita, il display di uno smartphone diventa l’ambientazione di un’avventura che ne vede coinvolte tre di loro, ciascuna in cerca di qualcosa. C’è Gene, figlio di un’emoji bah, che però proprio non riesce a restare nel personaggio: a Textopolis ogni abitante dev’essere una cosa e soltanto quella, senza alcuna possibilità d’improvvisarsi ciò che non è. Chi piange deve piangere sempre, così come chi ride, chi s’arrabbia e via discorrendo. L’idea di Emoji (il film) non è malvagia ed in fondo cerca a suo modo di tornare al sottotesto di uno dei migliori film d’animazione degli ultimi anni, ossia Inside Out, cercando ancora una volta di cavalcare certe intuizioni, ché oggi esiste un pubblico il quale non vede l’ora di rispondere a certe trovate.

Tutto o quasi però si risolve, o per meglio dire si esaurisce, in premessa: a ragion veduta strampalata, sopra le righe, perché a scommettere su un soggetto di questo tipo un pizzico di sana incoscienza ci vuole. Il punto è che da un film come Emoji – Accendi le emozioni ti aspetti che sia più scemotto, scanzonato, ed invece non ce la fanno: debbono essere intelligenti. Perciò il Cloud è un posto paradisiaco, «inattaccabile», i tweet ci salvano e via discorrendo. Ralph Spaccattutto, per dirne uno, era coloratissimo, però era anche più rifinito, graficamente su un altro livello; qui scoppiano solo gli occhi. Ed allora uno s’immagina che quantomeno ci sia da divertirsi, che si tratti di una giostra su cui comunque val la pena salire… ed invece, di nuovo, le cose non stanno esattamente in questo modo.

Proprio in virtù di quanto scritto prima, ossia la comprensibile quantunque ingombrante “necessità” di aggiungere strati, contribuendo però a rendere l’aria ancora più rarefatta perciò poco sostenibile. La struttura a livelli, rappresentati dalle app, va detto, non aiuta: ci si muove all’interno di quest’ambientazione labirintica, come fosse per l’appunto un videogioco, tanto che ritrovarsi nell’app di Just Dance serve solo a rimarcare l’ovvio, a parte il consentire a chi di dovere d’infilare due/tre brani pop chiamati a risollevare un ritmo per lo più soporifero e non per una questione di tempo, diciamo così.

Una lunga parte centrale meno confusionaria di altri film d’animazione che in questa fase qui si sono persi del tutto, come Pets per esempio, i cui primi dieci minuti rappresentano un gioiellino che grida vendetta al cospetto dei restanti ottanta o giù di lì. In Emoji funziona più per episodi sparsi, battute e giochi di parole che un sorriso arrivano finanche a strappartelo; nella misura in cui però vuole alzare un po’ la testa, beh, arriva fuori tempo massimo. Dire che su Facebook non ci sono amici bensì persone che vengono seguite in maniera incondizionata non ci dice nulla di che, ma nemmeno in termini puramente comici: trattasi infatti di una battuta che andava bene dieci anni fa, o tutt’al più per chiudere un film come The Social Network di Fincher.

E non si tratta di andare a guardare il pelo nell’uovo, dato che l’incapacità di lasciarsi un po’ andare, di non stare lì ad assemblare un film come se si stesse scrupolosamente seguendo un manuale d’istruzioni, si ripercuote in maniera consistente sul suo esito. L’idea di queste emoji mono-espressive per coercizione non solo non è esplorata per nulla ma viene gettata lì, giusto per dare un senso all’epilogo magari: nondimeno si fatica a capire perché dovremmo trovare interessante, divertente o degna di riflessione l’idea che un solo tipo di emoji sia limitante, mentre molto più dignitoso e proficuo sarebbe riuscire a mostrare tutto il ventaglio di emozioni di cui si è capaci, una dopo l’altra, come gli schizofrenici.

Non dimentichiamo che il target, nonostante tutto, resta quello di ragazzini che vivono oggi immersi in questo mondo fatto di touchscreen e alienazione, così come il film c’informa in maniera non meno invasiva nel prologo. Fare leva però sempre sul medesimo discorso, variandone pressoché di nulla i termini, a lungo andare è castrante: non si giustifica un’intuizione così ambiziosa e fuori di testa come quella alla base di questo soggetto riciclando ab libitum tematiche quali diversità ed il suo contrario, unita allo sfrenato e malsano invito, martellante, ad essere sé stessi (sic) etc. Specie se il resto finisce col fare da contorno, peraltro insapore.

Con in più, che è peggio, quell’amara impressione di avere assistito ad un’animazione di second’ordine, e per scrittura e per tenuta visiva, senz’altro non all’altezza dell’apposita divisione di Sony. C’è qualcosa, probabilmente, che Emoji – Accendi le emozioni vorrebbe dire; senonché il film comincia e tanto basta per dimenticarsi cosa fosse. Da lì in avanti si vive di freddure e simil barzellette a sfondo tecnologico. Lol.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]

Emoji – Accendi le emozioni (The Emoji Movie, USA, 2017) di Tony Leondis. Con T.J. Miller, James Corden, Ilana Glazer, Steven Wright, Anna Faris, Sofía Vergara, Patrick Stewart, Jennifer Coolidge, Maya Rudolph, Jake T. Austin e Christina Aguilera. Nelle nostre sale da giovedì 28 settembre 2017.